Cornelia I. Toelgyes
16 aprile 2023
Furibonda battaglia in Sudan tra i paramilitari di Rapid Support Forces (RSF), cioè gli ex janjaweed, e i soldati dell’esercito regolare. I combattimenti non tendono a placarsi. E’ un braccio di ferro per la conquista del potere.
La popolazione ha paura e si è barricata nelle proprie abitazioni, si sentono spari ovunque nella capitale Khartoum. Per le strade circolano carri armati e dal cielo piovono bombe. Intanto gli scontri hanno già causato la morte di almeno 56 civili oltre a un gran numero di militari e paramilitari.
L’Unione dei medici sudanesi ha anche rimarcato che i feriti tra la popolazione e i combattenti sono quasi 600. Testimoni oculari hanno riportato che nelle prime ore di domenica mattina, si sono uditi colpi artiglieria pesante anche a Omdurman (città gemella della capitale, al di là del Nilo) e nella vicina Bahri. Si combatte ora anche a Port Sudan, sul Mar Rosso, dove non erano stati segnalati scontri in precedenza.
I morti finora accertati si riferiscono solo alla capitale; pare che altri 22 civili siano stati uccisi da RSF in Darfur, notizia riportata dalla corrispondente di SkyNews per l’Africa, Yousra Elbagir, sul suo account Twitter.
L’aviazione sudanese ha raccomandato alla popolazione di rimanere in casa, perché sta conducendo un’indagine aerea sulle attività dell’RSF, che, secondo alcuni analisti dispone tra 70.000 e 100.000 uomini. Nello Stato di Khartoum tutto è bloccato: sono rimaste chiuse le scuole, banche e tutti gli uffici pubblici.
E da questa mattina la società di telecomunicazioni MTN su ordine del governo ha bloccato i servizi internet, come riferito da due funzionari all’Agenzia Reuters.
A nulla sono serviti i richiami alle parti in causa di Stati Uniti, Arabia Saudita e Emirati Arabi Uniti, Cina, Russia, per citare solo alcuni Paesi, di porre immediatamente fine alle ostilità.
L’agenzia di stampa russa RIA ha riportato ieri che l’ambasciata di Mosca in Sudan ha dichiarato sabato di essere preoccupata per “l’escalation di violenza” nel Paese e ha lanciato un appello per un immediato cessate il fuoco di sedersi al tavolo dei negoziati.
Altri appelli simili sono giunti ovviamente anche dall’Unione Europea, tramite Josep Borrell, Alto rappresentante dell’Unione per gli affari esteri e la politica di sicurezza, da Moussa Faki, presidente della Commissione dell’Unione africana e da Antonio Guterres, segretario generale delle Nazioni Unite.
Tensioni tra Abdel Fattah al-Burhan, presidente del Consiglio sovrano e il suo vice, Mohamed Hamdan Dagalo, nonché leader di RSF, sono palpabili da tempo per divergenze sul calendario dell’integrazione nell’esercito regolare dei miliziani delle RSF, che probabilmente non vogliono per nulla essere integrati.
I combattimenti scoppiati sabato tra le unità dell’esercito fedeli al generale Abdel Fattah al-Burhan e l’RSF, guidato dal vice leader Mohamed Hamdan Dagalo, noto come Hemeti, sono i primi di questo tipo da quando i due si sono alleati per spodestare Omar Hassan al-Bashir nel 2019.
E ieri le forze armate sudanesi hanno dichiaro che non hanno nessuna intenzione di intavolare negoziati con Dagalo, vicepresidente del Sudan, nonché leder delle RSF, a meno che il corpo paramilitare non venga sciolto. I generali hanno intimato ai paramilitari di presentarsi alle unità dell’esercito più vicine.
Mentre Dagalo non ha esitato ad apostrofare il presidente al-Burhan come “Bugiardo e criminale”. E ha aggiunto: “Sappiamo dove ti nascondi e ti raggiungeremo per consegnarti alla giustizia, altrimenti morirai come un cane qualsiasi”.
Sta di fatto che le RSF accusano l’esercito di aver messo in atto un complotto da parte dei lealisti dell’ex presidente forte Omar Hassan al-Bashir. Il colpo di Stato del 2021 ha poi estromesso il primo ministro civile del Paese, Abdallah Hamdok. E lo scorso febbraio, durante un suo intervento all’emittente di Stato, Dagalo ha dichiarato: “Il secondo golpe è stato un errore, è diventato una porta per il ritorno del vecchio regime dell’ex presidente Omar al Bashir”.
Lo scambio di accuse reciproco è pesante ed estremamente ambiguo. I due leader sostengono che l’avversario sia legato al dittatore defenestrato e che vogliano riportare il suo clan al potere. In realtà sia Dagalo che Al Burhan erano legati al vecchio regime e devono la loro carriera, tutta o in parte, a Omar Al Bashir. Occorre capire ora dove si colloca la potete setta dei Fratelli Musulmani che qualche anni fa, per morte naturale, ha perso il suo leader, Hassan Al Turabi.
L’aeroporto di Khartoum resta chiuso. Ieri durante gli scontri sono stati colpiti anche alcuni aerei, tra questi uno della linea saudita mentre era pronto al decollo. Nessun ferito, i membri dell’equipaggio sono stati trasferiti all’ambasciata di Riad accreditata nel Paese. Anche un aereo della compagnia ucraina Skyup ha subito danni. Intanto il Ciad ha sbarrato le sue frontiere terrestri con il Sudan.
Seriamente danneggiato allo scalo di Khartoum anche un aereo di UNHAS (Servizio aereo umanitario delle Nazioni Unite). Il World Food Programme, agenzia dell’Onu per l’aiuto umanitario, ha bloccato momentaneamente tutte le operazioni in Sudan dopo l’uccisione di 3 operatori, durante gli scontri tra i janjaweed ed esercito a Kabkabiya, nel Nord Dafur.
I militari egiziani presenti all’aeroporto di Merowe, città in prossimità al confine con l’Egitto, in mano ai paramilitari già da venerdì, sono strettamente sorvegliati dagli uomini di Dagalo, come si evince da un video postato ieri. Secondo Alarabiya News, i soldati de Il Cairo si sarebbero consegnati spontaneamente a RSF; le Forze di Supporto Rapido sono comunque pronte a cooperare per facilitare il loro ritorno in patria. L’esercito egiziano ha dichiarato che le proprie truppe si trovavano in Sudan per condurre esercitazioni con le loro controparti sudanesi.
La presenza di militari e intelligence egiziani in Sudan è stata frequente in questi anni. Ma la popolazione si è meravigliata nel vedere le truppe e gli aerei de Il Cairo stazionate all’aeroporto di Merowe anche dopo la fine delle esercitazione congiunte dell’aprile 2021.
Molti osservatori hanno considerato tale presenza come un intervento indesiderato negli affari interni sudanesi. Altri non hanno escluso il fatto che l’aeroporto potesse servire come trampolino di lancio per colpire l’Etiopia in caso di eventuali scontri tra le due nazioni in lite sull’utilizzo delle acque del Nilo.
Ma la permanenza dei militari stranieri è sempre stata minimizzata dalle autorità militari, che la hanno giustificate come parte di addestramento e scambio di esperienze.
Va ricordato che ai miliziani jhanjaweed di Dagalo è stato affidato anche il compito del controllo delle frontiere, dell’immigrazione “illegale” e del traffico di esseri umani. L’Unione Europea si è impegnata a sostenere finanziariamente questo incarico e l’Italia invece ha varato un programma nascosto di addestramento dei tagliagole, inviando nel 2022 una missione segreta a Khartoum.
Il 12 gennaio di quell’anno uno dei dirigenti del Dipartimento delle informazioni per la sicurezza (DIS), agenzia che dipende dalla presidenza del consiglio, il colonnello Antonio Colella, con quattro uomini fidatissimi e una donna apparentemente rappresentante di una NGO, ha incontrato il capo dei filibustieri, il generale Mohamed Hamdan Dagalo.
La questione fu anche sollevata in Senato in un intervento del senatore Alberto Airola. Nessuno rispose però al senatore del Movimento 5 Stelle.
Tra l’altro secondo i sito solitamente ben informato, dabangasudan.org con sede a Amsterdam, anche i mercenari russi della compagnia Wagner sono da anni impegnati nel training delle RSF. A questo punto è lecito domandarsi se in Sudan i servizi italiani lavorano assieme ai mercenari russi.
Recentemente il vice-presidente del Sudan ha incontrato il dittatore Isaias Aferwerki ad Asmara. E’ ben noto che entrambi hanno instaurati stretti legami con la Russia.
A prima vista si è trattato solo di un incontro tra due leader vicini. Ma la posta in gioco è molto alta, compreso il potenziale utilizzo da parte di Hemeti dei rifugiati eritrei che vivono in Sudan.
Secondo l’Agenzia delle Nazioni Unite per i Rifugiati (OIM), circa 128.000 rifugiati eritrei vivono nei campi del Sudan orientale, tra Kassala e Gadaref. Altri vivono a Khartoum e in città e villaggi in tutto il Sudan. Sono spesso presi di mira dalle autorità sudanesi, soprattutto per estorcere loro denaro. Ma ora potrebbero trovarsi di fronte a una minaccia ben più grave. Basti pensare cosa è successo a migliaia di eritrei quando è scoppiata la guerra nel Tigray. Molti sono stati costretti a combattere con le truppe di Isais, altri sono stati deportati in Eritrea.
Chissà se Isaias e Hemeti hanno pianificato qualcosa o se il capo di RSF pensa di arruolare nelle proprie file alcuni giovani eritrei che hanno già avuto un addestramento militare a Sawa ? Difficile prevedere cosa succederà.
Va anche ricordato che a novembre il Consiglio di sicurezza dell’ONU ha accusato il Sudan della presenza di un migliaio di paramilitari di RSF in Libia.
Poi non vanno dimenticate le tensioni tra Etiopia e il Sudan per la questione dei confini nella piana di al-Fashqa e, ovviamente per quanto concerne il Grand Ethiopian Renaissance Dam. Un primo passo per risolvere le problematiche è stato fatto a gennaio, quando il presidente sudanese si è recato a Addis Abeba per incontrare il suo omologo Abiy Ahmed.
Cornelia I. Toelgyes
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