Massimo A. Alberizzi
8 aprile 2023
Ieri mattina sei congolesi sono stati condannati all’ergastolo da un tribunale militare di Kinshasa per l’assassinio dell’ambasciatore italiano Luca Attanasio, della sua guardia del corpo italiana, il carabiniere Vittorio Iacovacci, e dell’autista locale del Programma alimentare mondiale (PAM), Mustapha Milambo, il 22 febbraio 2021. All’Italia che si è costituita pare civile andranno due milioni di dollari. La sentenza non chiarisce tutti i misteri che circondano la vicenda.
L’accusa aveva chiesto la pena di morte ma i giudici della guarnigione militare di Gombe (un quartiere della capitale congolese) si sono limitati al carcere a vita, anche sembra per i suggerimenti del governo italiano. Nel nostro ordinamento la penaa capitale non è prevista.
La difesa, secondo cui i suoi clienti sono innocenti perché estranei ai fatti, ha immediatamente diramato un comunicato, ricevuto anche dallo stringer di Africa ExPress a Kinshasa, preannunciando appello: “Gli imputati non c’entrano nulla con questa storia e hanno un alibi di cui i giudici non hanno voluto tener conto. Questo processo è politico”.
Al momento della lettura pubblica della sentenza in aula erano presenti cinque imputati: André Murwanashaka Mushahara, Issa Seba Nyani, Antoine Bahati Kiboko, Amidu Sembinja Babu alias Samuel Ombeni e Prince Marco Shimiyimana. Il sesto condannato è latitante.
Erano sotto processo dal 12 ottobre, al ritmo di un’udienza a settimana, nel carcere militare di Ndolo – vicino al vecchio aeroporto, teatro l’8 gennaio 1996 di una tragedia quando un Antonov di Air Africa, stracarico di armi destinate ai ribelli dell’Unita in Angola, in decollo, si schiantò su un mercato ai margini della pista – dove erano stati portati dopo il loro arresto nel gennaio 2022 nell’est del Paese.
Presentati come membri di una banda di criminali comuni, rapinatori di strada e sequestratori, sono stati ritenuti colpevoli dell’omicidio dell’ambasciatore italiano.
Quel giorno, un convoglio di due veicoli del PAM, partito da Goma, la capitale del Nord Kivu, cadde in un’imboscata a circa 20 km dalla città, alla periferia del Parco nazionale di Virunga.
Rinomato per i suoi gorilla, il parco è anche noto per essere un covo di gruppi armati in questa regione tormentata dalla violenza da almeno 30 anni.
Secondo la ricostruzione degli inquirenti, il convoglio venne tagliato in due. Il veicolo su cui viaggiava l’ambasciatore fu bloccato e l’autista ucciso dagli aggressori. Il suo corpo fu lasciato sul ciglio della strada. L’ambasciatore e la sua guardia del corpo furono portati via e spinti nella boscaglia.
Non lontano all’agguato si trovava un drappello di rangers del parco che è subito intervenuto armi in pugno. Nella sparatoria Iacovacci è stato ucciso immediatamente mentre il diplomatico gravemente ferito è stato trasportato all’ospedale di Goma dove è spirato poco dopo.
Immediatamente quella stessa sera le autorità congolesi hanno accusato un gruppo di ribelli hutu ruandesi, le FDLR (Forces Démocratiques de Libération du Rwanda), indicati come gli autori dell’imboscata. Ma il loro leader, i colonnello, Placide Niyiturinda, in un’intervista esclusiva al telefono con Africa ExPress, aveva sempre negato anzi accusando dei tre omicidi i ribelli tutsi che operano anch’essi nella zona.
La versione “politica” però è stata ben presto abbandonata dalle autorità che hanno imboccato la strada del tentato rapimento a scopo di estorsione, diventata ufficialmente evidente quando un anno dopo sono stati arrestati i cinque condannati e individuato il sesto latitante.
Ma durante le udienze gli imputati hanno affermato in continuazione di non avere nulla a che fare con la morte dei tre e il processo non ha fornito nessuna informazione sulle circostanze, gli autori e i possibili mandanti dell’agguato.
Secondo gli stringer di Africa ExPress a Kinshasa, alcuni dei quali hanno assistito al processo, i condannati hanno negato tutto e hanno affermato che le loro confessioni erano state estorte con la tortura. “Sono dei poveracci incastrati per dare qualcuno in pasto all’opinione pubblica italiana e per chiudere le porte a un’indagine seria – ha dichiarato ad Africa ExPress un diplomatico osservatore delle cose congolesi – . Non sono stati chiamati a deporre testimoni né le guardie del parco, né Rocco Leone, l’altro italiano sopravvissuto alla tragedia, un dipendente del PAM”.
“La difesa – ha raccontato uno degli stringer di Africa ExPress – ha sostenuto che l’accusa non ha provato né la partecipazione a banda armata, né il possesso illegale di armi e munizioni da guerra. Insomma, è sembrato un processo farsa”.
Infatti in Congo è in corso una lotta serrata per il controllo delle risorse minerarie abbondanti soprattutto nell’est del Paese dov’è avvenuta la tragedia e dove le milizie ruandesi fedeli al presidente Paul Kagame e quelle che invece fanno riferimento alla popolazione hutu si stanno scontrando a spese della popolazione locale. Villaggi distrutti, massacri, stupri e saccheggi quali quotidiani non si contano più.
All’inizio del mese a Kinshasa è stato arrestato un deputato considerato il re del coltan, Eduard Mwangachuchu, accusato di curare gli interessi di Paul Kagame , finanziatore del gruppo di ribelli (l’M23, dal nome di un accordo di pace siglato più di 10 anni fa 23 marzo). L’arresto sarebbe invece stato effettuato per calmare i ruandesi hutu che si sono allineati al governo centrale di Kinshasa contro i tutsi.
Insomma la confusione con scambi di accuse regna sovrana e una propaganda martellante che impedisce a veder chiaro e capire ciò che succede e che è successo al nostro ambasciatore. Dalle opinioni raccolte in loco, anche se al telefono, da Africa ExPress sembra però che invece di diradare la nebbia la conclusione di questo processo l’abbia resa ancora più fitta.
Massimo A. Alberizzi
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