QUESTO SPECIALE CONTIENE VIDEO CON IMMAGINI SENSIBILI CHE NON SONO RACCOMANDATE PER PERSONE EMOZIONABILI
L’autore di questo articolo, Mark Doyle, è stato il corrispondente della BBC
da varie parti dell’Africa. E’ un collega e amico del direttore di Africa ExPress che, quando ha letto questa storia scritta nel 2014 in occasione del ventennale del genocidio in Ruanda, gli ha subito chiesto se si poteva
tradurre in italiano e pubblicarla. Mark e Massimo hanno lavorato
spessissimo assieme, testimoni di guerre, massacri e carneficine nelle zone più complicate e difficili del continente, a cominciare dalla Somalia.
Oggi, 7 aprile cade il 29 anniversario del genocidio cominciato subito dopo,
le sera prima, l’abbattimento dell’aereo su cui viaggiavano
il presidente del Ruanda, Juvénal Habyarimana
e il suo collega burundese, Cyprien Ntaryamira.
Mark Doyle
aprile 2014
Questa è la storia dell’uomo più coraggioso che abbia mai conosciuto.
Ho seguito molte guerre e visto molti atti di coraggio. Ma per grinta e determinazione non ho mai conosciuto nessuno paragonabile al capitano Mbaye Diagne, un peacekeeper delle Nazioni Unite in Ruanda.
Ero lì nel 1994, quando 800.000 persone furono uccise in 100 giorni, e sono tornato per ricostruire la storia di questo straordinario e carismatico ufficiale proveniente dal Senegal, nell’Africa occidentale.
Il Paese è precipitato nella guerra e nel genocidio il 6 aprile 1994, quando l’aereo che trasportava il presidente ruandese, appartenente alla maggioranza della popolazione hutu, è stato abbattuto. Tutte le persone a bordo furono uccise. Nel giro di poche ore gli estremisti hutu presero il potere e si scatenò un’ondata di omicidi contro la minoranza tutsi e contro chiunque fosse disposto a difenderla.
L’esercito andò a arrestare il primo ministro Agathe Uwilingiyimana quella prima notte.
Mentre risuonavano gli spari, i suoi cinque figli, il più piccolo dei quali aveva appena tre anni, furono portati via attraverso una rete per essere nascosti nella casa di un vicino.
I bambini erano rannicchiati nel bungalow di mattoni, sbirciando di tanto in tanto dalla finestra, quando hanno visto i soldati che cercavano i loro genitori. “Ci furono altri spari”, racconta Marie-Christine, la figlia del primo ministro, che all’epoca aveva 15 anni.
Agathe Uwilingiyimana era una hutu moderata, non una tutsi, ma fu uccisa perché era pronta a condividere il potere con loro. Se gli assassini avessero trovato i bambini, sarebbero stati massacrati anche loro.
Ore dopo, quando i soldati delle Nazioni Unite sono arrivati per prelevare gli operatori umanitari dell’ONU dal complesso dietro la residenza del primo ministro, hanno scoperto Marie-Christine e i suoi fratelli ancora nascosti nel bungalow.
È scoppiata una feroce discussione su cosa fare dei bambini. Non era chiaro se i soldati dell’ONU fossero autorizzati a spostarli, dice Adama Daff, uno degli operatori umanitari, ma “per motivi umanitari non potevamo assolutamente lasciarli lì”.
Era estremamente pericoloso viaggiare ovunque. Erano già comparsi posti di blocco presidiati da assassini hutu e i veicoli blindati che avrebbero dovuto portare in salvo gli operatori umanitari dell’ONU non si erano presentati.
Alla fine, racconta Daff, si decise che il capitano Mbaye, un osservatore militare disarmato, avrebbe portato i bambini nella sua auto non blindata fino alla relativa sicurezza del vicino Hotel des Mille Collines, sorvegliato dalle Nazioni Unite.
“Decise di caricare i bambini”, racconta il generale Romeo Dallaire, comandante canadese della piccola e poco equipaggiata forza ONU. “Li ha nascosti sotto un telone e ha guidato come un pazzo”.
Sono stati i primi di molta gente che Mbaye ha portato all’Hotel des Mille Collines – un edificio di vetro e cemento senza importanza situato su una collina che domina la capitale Kigali, ma uno dei pochi santuari per i Tutsi in città.
Il capitano Mbaye Diagne aveva circa 30 anni, veniva da un piccolo villaggio del Senegal settentrionale ed era un uomo dal fascino immenso. Alto, con i denti sporgenti e gli occhiali da sole Aviator, il suo umorismo metteva le persone a proprio agio anche in uno dei capitoli più bui della storia moderna.
I primi, sanguinosi giorni del genocidio sembrarono un pandemonio.
C’era piombo rovente che volava in ogni direzione e corpi che giacevano, a volte ammucchiati, ai lati delle strade.
I terrificanti posti di blocco erano presidiati principalmente dalla milizia hutu Interahamwe. La parola significa “coloro che lavorano insieme” – e il lavoro consisteva nell’uccidere i Tutsi con machete, coltelli e bastoni. Ho visto un uomo colpire un altro alla testa con un cacciavite.
Le stazioni radio li incitavano, invocando la morte degli “scarafaggi” tutsi.
L’abbattimento dell’aereo del presidente aveva riacceso la guerra civile tra l’esercito governativo e le forze ribelli del Fronte Patriottico Ruandese (RPF), che era stata brevemente sospesa in seguito a un timido accordo di pace. Guidato dal tutsi Paul Kagame, l’RPF stava avanzando verso la capitale, assicurando che voleva fermare il massacro.
Tra le due parti c’era la forza dell’ONU, assediata. I suoi veicoli venivano talvolta attaccati dagli hutu, soprattutto se i miliziani pensavano che al loro interno ci fossero dei tutsi.
Nelle prime 48 ore, molti osservatori militari disarmati come Mbaye – soprattutto quelli che si trovavano fuori dalla capitale – sono scomparsi. “Ci è voluto quasi un mese per trovarne alcuni che erano andati in Paesi diversi – racconta Dallaire -. Alcuni sono finiti a Nairobi prima che sapessimo dove fossero”.
Non avendo praticamente nessuno che li difendesse, decine di migliaia di Tutsi cercarono rifugio nelle chiese, ma anche qui non erano al sicuro. Una di loro, Concilie Mukamwezi, si era recata con il marito e i figli nella chiesa Sainte Famille, un grande complesso religioso nel centro di Kigali. Ricorda il momento trascorso lì con una chiarezza impressionante.
“Avevo appena comprato del sapone da bucato in una bancarella quando mi si è avvicinato un prete in uniforme militare”, racconta.
“Aveva con sé quattro miliziani ed era armato di un fucile Kalashnikov, una pistola e delle granate. Mi ha accusato di essere una collaboratrice dei ribelli”.
Per quanto possa sembrare incredibile, alcuni membri del clero hutu collaboravano al genocidio, e alcuni vi prendevano addirittura parte.
Uno dei compiti di Mbaye era quello di essere gli occhi e le orecchie della missione ONU, e si impegnava a controllare di tanto in tanto le persone che si rifugiavano a Sainte Famille.
Concilie la conosceva di vista perché prima del genocidio aveva lavorato nell’ufficio della compagnia telefonica nazionale, Rwandatel, dove lui pagava le bollette del telefono. E per una coincidenza l’ufficiale è entrato nel complesso della chiesa nel momento in cui lei era minacciata dal prete.
“Il capitano Mbaye è accorso e si è messo tra me e il sacerdote”, racconta Concilie. “Ha gridato: ‘Perché state uccidendo questa donna? Non dovete farlo perché se lo fate lo saprà tutto il mondo'”. Il sacerdote ha fatto marcia indietro.
Non ci sono state uccisioni su larga scala all’interno del complesso di Sainte Famille, in parte grazie agli sforzi di Mbaye e degli altri peacekeeper delle Nazioni Unite. Ma altri massacri sono avvenuti all’esterno.
In molte altre chiese dove la gente aveva trovato rifugio, i soldati e i miliziani hanno fatto irruzione e hanno massacrati i fedeli nei banchi.
Altri ruandesi disperati hanno cercato di approfittare delle operazioni di salvataggio lanciate per mettere in salvo la comunità di espatriati che si trovava nel Paese.
Ancilla Mukangira, ruandese che lavorava per un’agenzia di aiuti tedesca, si era recata all’American Club nell’errata convinzione che gli americani le avrebbero trovato un posto in uno dei veicoli destinati a lasciare il Paese.
“Sono entrata per iscrivermi al convoglio”, racconta fuori dal vecchio club, che oggi è un ristorante cinese. “Ma mi hanno detto che non erano ammessi ruandesi e mi hanno intimato di andar via”.
Ancilla era in piedi, piangendo, sul marciapiede esterno, quando Mbaye le si è avvicinato. “Cosa ci fai qui? – le ha chiesto -. Se ti vedono ti uccidono”. Lei le ha spiegato che era stata cacciata. L’ufficiale è rimasto sbigottito e stentava a crederci, dice lei, ma poi si è offerto di aiutarla lui stesso.
“Mbaye era scioccato dal comportamento dei Wazungu [i bianchi]”, dice Andre Guichaoua, un accademico francese che alloggiava all’hotel Mille Collines e che ha conosciuto Mbaye nei primi giorni del genocidio.
Le truppe francesi, belghe e italiane stavano arrivando a Kigali, ma solo per salvare i propri cittadini.
“Perché se avessimo messo i soldati francesi, belgi e italiani a fianco delle truppe delle Nazioni Unite, sarebbe stato perfettamente possibile affrontare l’esercito e le milizie che erano direttamente coinvolte nei massacri”, spiega Guichaoua.
“Non c’è stato alcun coordinamento – e Mbaye era profondamente inorridito da questo”.
In effetti, il coordinamento era molto scarso, anche all’interno del sistema delle Nazioni Unite. Mentre ufficiali come Mbaye proteggevano coraggiosamente chi potevano, i capi delle Nazioni Unite a New York stavano ancora discutendo su come – o addirittura se – sostenerli. Poco dopo l’inizio delle ostilità, ridussero di fatto il numero di truppe ONU sul campo da 2.500 a meno di 300.
Gli Stati Uniti, nel frattempo, erano determinati a non mettere gli stivali sul terreno. Erano passati solo sei mesi dall’umiliazione delle sue forze in Somalia, quando 18 ranger statunitensi furono uccisi in un incidente che divenne noto come Black Hawk Down.
Così Mbaye accompagnò Ancilla Mukangira all’Hotel des Mille Collines, passando davanti agli uomini della milizia che aspettavano al cancello per uccidere i Tutsi all’interno.
Le disse di rimanere nella sua stanza e di non aprire la porta a nessuno, tornando solo a notte fonda, con un materasso in più da usare. “Mi vide leggere la mia Bibbia”, ricorda Ancilla.
Anch’io avevo conosciuto un po’ Mbaye. Di solito i soldati sono diffidenti nei confronti dei giornalisti, ma in questo, come in altri aspetti, lui era diverso.
Un giorno, abbiamo viaggiato assieme nella sua auto bianca delle Nazioni Unite per raccogliere informazioni su un orfanotrofio in un sobborgo della città chiamato Nyamirambo, dove si riteneva potessero nascondersi diverse centinaia di bambini vulnerabili.
Durante il tragitto, siamo stati fermati a un posto di blocco dei miliziani. Uno di loro si è avvicinato all’auto e si è sporto dal finestrino con in mano una granata a bastone cinese. Sembrava uno sturalavandini vecchio stile, ma invece di avere una ventosa di gomma all’estremità di un bastone robusto, aveva una bomba.
Me la sventolò davanti chiedendo minaccioso: “Chi è questo belga?”. i miliziani consideravano i belgi, l’ex potenza coloniale in Ruanda, come un nemico. Di recente avevano ucciso 10 soldati belgi, che facevano parte della forza delle Nazioni Unite, calcolando che questo avrebbe fatto sì che l’intero contingente belga dell’ONU lasciasse il Ruanda – cosa che avvenne.
Ero terrorizzato di essere ucciso, ma Mbaye guardò l’uomo, sorrise e fece una battuta. “Sono l’unico belga in questa macchina. Vedi?”, disse, pizzicando un po’ della pelle nera del Senegal sul braccio. “Belga nero!”.
La battuta ruppe la tensione del momento. Mbaye gli ordinò di togliersi di mezzo, il miliziano obbedì istintivamente e noi proseguimmo.
“Amava scherzare con le persone, amava parlare”, dice uno dei suoi ex compagni nella missione ONU, Babacar Faye, ora colonnello dell’esercito senegalese.
Mbaye era un musulmano devoto, ma trasportava alcolici nella sua 4×4 delle Nazioni Unite per “comprare” la vita delle persone da salvare e che portava attraversando i mortali e micidiali posti di blocco.
“Nella sua auto aveva spesso casse di birra, bottiglie di whisky e molti pacchetti di sigarette – racconta Faye -. E aveva sempre delle mazzette di contanti”.
Una volta ho visto un elenco di nomi su un pezzo di carta che gli era caduto dalla tasca. Era una lista di nomi – “Pierre”, “Marie” – con somme di denaro scritte accanto: 10, 30 dollari e così via.
Erano i suoi registri: le somme che aveva pagato, spesso per conto di qualcun altro, per far passare le persone ai posti di blocco.
A volte regalava anche le sue razioni di cibo militare e quando i suoi colleghi lo hanno scoperto, donavano le loro per aggiungerle alla preziosa scorta sul sedile posteriore della sua auto.
“Quando veniva fermato ai posti di blocco, i miliziani dicevano ‘Capo, ho fame’ o ‘Capo, ho sete’ e lui dava loro una sigaretta, o se si trattava di uno dei capi milizia dava una birra o un whisky”, racconta Faye.
“Questo gli permetteva di andare ovunque senza far spazientire o irritare troppo i miliziani. Ed è così che ha salvato le persone che la milizia voleva uccidere: cinque o sei persone alla volta nella sua auto”.
Con il passare del tempo, la guerra ha diviso Kigali in due zone: una controllata dal governo, l’altra dall’RPF.
L’Hotel des Mille Collines si trovava nella zona controllata dal governo, proprio accanto a una caserma in cui risiedevano alcuni capi della milizia. Ma grazie alle guardie armate dell’ONU, molti tutsi e hutu moderati sono riuscite sd entrare. La maggior parte doveva avere soldi o contatti.
I figli della prima ministra uccisa, Agathe Uwilingiyimana, assieme sono stati fatti uscire di nascosto dall’hotel dopo pochi giorni, nascosti sotto delle valigie nel retro di un veicolo delle Nazioni Unite. Sono stati portati all’aeroporto e messi in salvo, ancora vestiti con i pigiami che indossavano quando sono fuggiti da casa.
Ma sempre più persone sono arrivate all’hotel e le condizioni sono peggiorate costantemente. Le forniture d’acqua sono state interrotte, costringendo i rifugiati a bere l’acqua della piscina. All’inizio la facevano bollire, ma dopo l’interruzione della corrente elettrica non potevano fare nemmeno quello.
In un’occasione Mbaye e altri funzionari delle Nazioni Unite hanno cercato di organizzare un convoglio di camion ONU dall’hotel Mille Collines fino all’aeroporto. Una dottoressa, Odette Nyiramilimo, era su uno dei camion con la sua famiglia, mentre Mbaye era nel veicolo di testa.
Il convoglio esce dai cancelli dell’hotel, ma dopo solo poche centinaia di metri prima viene fermato da una folla di miliziani.
Una radio di propaganda governativa era entrata in possesso dell’elenco delle persone a bordo dei camion e lo stava leggendo in diretta. I miliziani vanno su tutte le furie.
“Poi il capitano Mbaye viene da noi di corsa si mette tra il camion e i miliziani spalancando le braccia”.
Alla fine Mbaye, insieme ad altri ufficiali senegalesi, ha convinto i miliziani a non uccidere le persone sul convoglio. Ma la folla di esagitati era troppo grande per essere attraversata, così hanno il convoglio è dovuto tornare all’hotel. Non erano riusciti a raggiungere l’aeroporto e a lasciare il Paese, ma erano vivi.
Al Mille Collines, mentre la dottoressa stava prestando i primi soccorsi ai passeggeri che erano stati trascinati fuori dai veicoli e attaccati, Mbaye le si avvicinò.
“Sembrava scioccato – racconta la dottoressa Nyiramilimo -. Diceva: “Ti hanno quasi ucciso, sai, volevano davvero farlo”. Ed era sconvolto, stava quasi piangendo”.
Il dottor Nyiramilimo e Ancilla Mukangira lasciarono l’hotel in convogli successivi. Le Nazioni Unite organizzarono degli “scambi”: i Tutsi intrappolati da una parte del fronte furono scambiati con gli Hutu bloccati dall’altra. In questo modo furono salvate migliaia di persone.
Non sapremo mai esattamente quante persone devono la loro vita a Mbaye.
Il suo vecchio amico Col. Faye parla di “400 o 500, come minimo”. Ritiene che tutte le persone che si trovavano nell’Hotel des Mille Collines sarebbero state uccise se non fosse stato per il ruolo centrale di Mbaye nel difenderle.
Una stima ufficiale del Dipartimento di Stato di Washington, che nel 2011 ha onorato Mbaye con un certificato Tribute To Persons Of Courage, dice che la cifra è “fino a 600”.
Ma lo studioso americano Fulbright Richard Siegler, che vive in Ruanda e intende pubblicare un libro su Mbaye, ritiene che la cifra corretta possa essere di 1.000 o più.
“La piena portata delle azioni del capitano Mbaye non è ancora stata riconosciuta, perché coloro che lo hanno visto agire si sono resi conto solo una piccola parte di ciò che stava facendo”, afferma Siegler.
Sarebbe sbagliato suggerire che Mbaye sia stato l’unico ad aver salvato delle vite in Ruanda nel 1994: ci sono stati innumerevoli casi di estremo coraggio da parte dei ruandesi stessi.
Ma in tutti gli anni trascorsi dal genocidio, i ricercatori hanno analizzato i dettagli dell’accaduto e nessuno ha trovato qualcuno coinvolto in tanti salvataggi come il capitano Mbaye Diagne.
La sua vita si esaurì la mattina del 31 maggio 1994.
A quel punto l’RPF aveva il sopravvento, ma le forze governative stavano facendo un’ultima resistenza nel centro di Kigali. Quasi ogni giorno c’erano grandi battaglie in città, combattimenti così intensi che i suoni degli spari delle singole armi si fondevano insieme per produrre un rumore assordante come un tuono rotolante.
Fu in uno di questi giorni che a Mbaye fu chiesto di portare un importante messaggio scritto dal capo dell’esercito governativo, Augustin Bizimungu, al comandante delle Nazioni Unite, Romeo Dallaire, che si trovava nella zona ora in mano all’RPF.
Mbaye avrebbe dovuto lasciare il settore controllato dal governo attraversando un posto di blocco dell’esercito governativo.
Arriva e si ferma a un posto di blocco e un colpo di mortaio esplode sulla strada a poca distanza dalla sua auto.
Le schegge squarciano la carrozzeria della sua auto. Mbaye colpito muore sul colpo.
“È stata una giornata molto, molto difficile – racconta Dallaire, che ora è senatore del Parlamento canadese -. Sono state tante le vittime, ma è stato un evento particolare perché abbiamo perso una di quelle luci splendenti, uno di quei ragazzi-faro che influenzano gli altri”.
“Mbaye faceva parte di un piccolo gruppo di persone disposte a rischiare la vita per salvare gli altri – dice Dallaire -. Aveva un senso di umanità che andava ben oltre gli ordini, ben oltre qualsiasi mandato”.
E stava per tornare a casa. “Mancano solo 12 giorni alla fine della mia missione – aveva detto alla moglie Yacine al telefono tre giorni prima di essere ucciso -. Poi tornerò in Senegal. Quindi devi pregare per noi”.
Nell’ultima telefonata a casa a Dakar, ha parlato molto della morte. “Questo mi ha davvero sconvolto – raconta Yacine -. Non aveva mai parlato così prima. Credo che le cose che ha visto laggiù lo abbiano colpito profondamente”.
I loro due figli, un maschio, Cheikh, e una femmina, Coumba, avevano appena due e quattro anni quando il padre morì. Sarebbero passati due anni prima che Yacine riuscisse a dire loro la verità. “Papà tornerà a casa quando finirà la sua missione”, diceva loro.
Ho chiesto a Yacine come avesse fatto a tenersi dentro la tragedia e a non condividerla con i suoi figli.
“Sì, è stata dura, ma loro non avrebbero capito – spiega -. Era la cosa giusta da fare: proteggerli da questa storia finché non avessero potuto capire”.
La figlia del primo ministro assassinato, Marie-Christine Umuhoza, è ora sposata e ha due figli propri.
Lei e i suoi fratelli sono stati trasportati in Francia, ma il Paese che aveva ospitato la moglie e la famiglia del presidente assassinato ha rifiutato i figli del primo ministro assassinato. Finirono invece come rifugiati in Svizzera.
Marie-Christine vive a Losanna, dove lavora come infermiera psichiatrica. Non aveva mai parlato pubblicamente degli eventi del 1994, ma mi ha raccontato la sua agghiacciante storia con grande compostezza e dignità.
Sembra che sia riuscita ad accantonare quella parte tragica della sua vita e ad andare avanti.
“Quando ho accettato di parlare con te, l’ho fatto anche per rendere omaggio alla memoria del capitano Mbaye”, dice.
Io ho saputo della morte di Mbaye dopo aver notato un’insolita quantità di conversazioni concitate sulla rete di walkie-talkie delle Nazioni Unite. Ho sentito i soldati parlare di un grave incidente a un posto di blocco governativo in cui potrebbe essere stato ucciso un osservatore militare delle Nazioni Unite.
“Oh Dio, spero che non sia Mbaye”, ha detto un operatore umanitario delle Nazioni Unite. Ma sbagliava e perché temeva che si trattasse dell’ufficiale senegalese.
Mi sono precipitato al posto di blocco con un ufficiale canadese delle Nazioni Unite, che già sapeva chi era la vittima ma non riusciva a rivelarmelo.
Quando sono arrivato all’auto, il corpo era stato portato fuori. C’era sangue sul sedile e nel vano dove si appoggiano i piedi.
Il giorno dopo, quando il suo corpo è stato portato su un aereo all’aeroporto di Kigali per il rimpatrio in Senegal, non c’era una bara disponibile – la missione delle Nazioni Unite stava operando con così poche risorse, ed era stata così abbandonata dal resto del mondo, che Mbaye è stato avvolto in un grande pezzo del telo di plastica blu che le Nazioni Unite usano normalmente per accogliere i rifugiati.
Sopra è stata posta una bandiera delle Nazioni Unite.
Poco prima che il corpo venisse caricato, uno degli altri osservatori militari senegalesi, il capitano Samba Tall, mi si avvicinò. “Io sono un soldato – mi disse – ma tu sei un giornalista. Devi raccontare la storia del capitano Mbaye Diagne”.
A quel punto io e il capitano Tall siamo scoppiati in lacrime.
Mark Doyle
L’articolo originale in inglese con video e foto si trova qui
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