Massimo Nava
Parigi, 12 marzo 2023
Decisamente, il mese di febbraio è stato un mese di anniversari importanti. Non solo quello, appena ricordato, dell’invasione russa dell’Ucraina, ma anche di quello di vent’anni fa, in cui maturò la decisione degli Usa di invadere l’Iraq.
Storia e Memoria non si divertono con le coincidenze, ma le analisi dovrebbero tenerne conto.
La maggioranza dei Paesi rappresentati all’Onu ha condannato l’azione della Russia, ma allora l’Assemblea assistette a due drammatici interventi contrapposti.
Il 5 febbraio, il segretario di Stato Usa, Colin Powell, cercò di dimostrare che il dittatore Saddam Hussein fosse in possesso di armi di distruzione di massa e che pertanto andasse attaccato, con l’obiettivo di abbattere il regime e avviare un processo democratico.
Ma il ministro degli esteri francese, Dominique de Villepin, si oppose con fermezza, sostenendo la necessità di perseguire la via diplomatica e i controlli delle agenzie internazionali sugli arsenali dell’Iraq. Di fatto, si creò una spaccatura fra Francia e Stati Uniti, la cui onda lunga sarebbe arrivata in Europa e nel mondo arabo e africano. L’immagine dell’America fu offuscata.
La Storia darà ragione alla Francia. Non solo perché le accuse di Powell si dimostrarono false, come lui stesso ammise anni dopo, ma perché la guerra in Iraq avrebbe fatto a pezzi il diritto internazionale e innescato una drammatica instabilità in tutto il Medio Oriente, le cui conseguenze furono il Califfato dell’Isis, gli attentati di matrice islamica in Europa, la guerra in Siria. In Iraq, all’invasione e ai bombardamenti seguirono anni di attentati contro la popolazione civile e scontri fra le componenti religiose. In Afghanistan, cominciò un’altra operazione militare, fino all’ignominiosa riconquista da parte dei talebani.
“In Iraq — disse de Villepin dopo il conflitto — non erano in gioco soltanto guerra e pace, ma anche le regole su cui deve essere fondato l’ordine internazionale. L’intervento preventivo non può essere una regola”. L’allora segretario delle Nazioni Unite Kofi Annan definì l’intervento in Iraq con un solo aggettivo: “Illegale”.
Come in una profezia, de Villepin aveva indicato il rischio di aggravare le divisioni tra società, culture e popoli, un terreno fertile per il terrorismo e l’instabilità internazionale. “La guerra è sempre la sanzione di un fallimento. (…) Parlo a nome di un vecchio Paese, la Francia, di un continente come il mio, l’Europa, che ha conosciuto guerre, occupazioni, barbarie…”. Ma furono parole al vento. Allora, come del resto oggi, la diplomazia fu messa tra parentesi, accantonata come un segno di debolezza o peggio di benevolenza verso il nemico. Salvo ritornare di moda in un deserto di lutti e macerie.
Colin Powell a un giornalista dell’Abc News ammise: “Naturalmente. È una macchia. Io sono colui che ha agito in nome degli Stati Uniti e questo sarà parte della mia storia. È stato doloroso”. Ma il 20 marzo, esattamente vent’anni fa, la guerra cominciò e l’Iraq fu invaso dalla cosiddetta “coalizione di volenterosi”, guidata da Stati Uniti e Gran Bretagna e sostenuta — ieri come oggi — dal più solerte alleato degli americani, la Polonia.
Non erano necessarie sfere di cristallo, rapporti dell’intelligence o profonda conoscenza dell’Iraq per prevedere che la guerra sarebbe stata breve e il dopoguerra infinito. Bastava ascoltare testimoni del tempo come il vecchio Amir, che citava Lawrence d’Arabia: “Quando si comincia una guerra da queste parti è come mangiare una zuppa con il coltello”; o guardare vecchie fotografie, come quella del 1917 (per chi ama le coincidenze, era sempre in marzo), che raccontavano l’invasione britannica. I soldati che entravano a Bagdad erano agli ordini del generale Stanley Maude che disse: “Non veniamo qui come nemici, né come conquistatori, ma come liberatori”. Seguirono rivolte e massacri.
I vecchi di Bagdad non potevano accertare l’esistenza delle armi di distruzione di massa, il pretesto della guerra, ma nemmeno immaginare che la tragedia del loro Paese sarebbe cominciata con una bugia proclamata nella massima istituzione internazionale.
La guerra divise l’Europa, dal momento che Francia e Germania si opposero all’intervento, mentre Gran Bretagna, Polonia e Italia sostennero la decisione americana. Anni dopo, anche il Parlamento di Londra mise sotto accusa il premier Tony Blair, confermando che l’intervento fu deciso sulla base di motivazioni false e non seriamente vagliate.
La Francia, allora paladina del diritto internazionale e dell’opposizione alla guerra, cambiò tuttavia registro anni dopo: l’ex presidente Nicolas Sarkozy fu infatti il primo sostenitore del bombardamento della Libia per eliminare Gheddafi. Seguirono guerra civile, scontri tribali, ondate migratorie, instabilità endemica.
Anniversari e ricorsi storici, oggi come ieri, rimandano al conflitto fra sovranità degli Stati e diritti dei popoli e delle minoranze. Conflitto che ha offerto negli ultimi vent’anni i più svariati pretesti e giustificazioni per interventi armati. Basti ricordare la legittima difesa e la lotta al terrorismo (Afghanistan), il dovere d’ingerenza (Bosnia, Kosovo), le armi di distruzione di massa e l’esportazione della democrazia (Iraq), la protezione di una minoranza (Libia).
Giustificazioni più o meno etiche, come il “bombardamento umanitario”, un ossimoro, o dettate da ambizioni e interessi strategici, che hanno contribuito a indebolire il sistema internazionale delle regole e a mortificare il ruolo delle Nazioni Unite, con il risultato che il vuoto di legalità è stato progressivamente riempito da altre logiche, da obiettivi politici e militari con pretesa di fondamento morale e ideologico e in sostanza dalla più ignobile delle leggi, quella del più forte, come nella martoriata Ucraina, vittima della legge di Putin.
Massimo Nava
mnava@corriere.it
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