Chiara Zanini
19 novembre 2022
È possibile visitare a Roma fino a domani la mostra con cui l’artista Alessandra Ferrini ha vinto il MAXXI BVLGARI Prize 2022, allestito negli spazi del museo Maxxi e sostenuto da Bulgari.
Dal 2018 infatti, il marchio Bulgari sostiene giovani artisti con un riconoscimento che permette ai finalisti di esporre le proprie opere a Roma, all’interno di uno dei musei di arte contemporanea più importanti d’Italia. A contendersi il premio con Alessandra Ferrini erano Namsal Siedlecki e Silvia Rosi, selezionati da una giuria di esperti internazionali.
L’opera di Ferrini ha per titolo Gaddafi in Rome: Notes for a Film e la scelta della giuria è dovuta alla “sua capacità di rappresentare i fatti controversi della storia geo-politica contemporanea, sfidando le formule ufficiali e canonizzate delle narrazioni storiche e giornalistiche. In particolare, per la forza e l’equilibrio nell’analizzare i materiali documentari come fotografie, testi e film, ricomponendoli in una nuova narrazione, che riflette sul ruolo della ricerca come essenziale per una dichiarazione in difesa dei diritti umani e della cittadinanza globale nell’epoca post-coloniale”.
Il premio del pubblico invece è andato a Silvia Rosi, artista italo-togolose la cui opera Teacher Don’t Teach Me Nonsense è stata scelta “per la capacità di affrontare temi quali la provenienza, discendenza e memoria in una prospettiva contemporanea tra lirismo e ironia”.
Ma è senz’altro il lavoro di Ferrini quello più interessante per i lettori di Africa Express, in quanto capace di coniugare la rievocazione critica di un episodio dell’età contemporanea che coinvolge Europa e Africa sottolineando l’evidenza dei pericoli che i media presentano, soprattutto quando – lo fanno quotidianamente – decidono di spostare i riflettori posti su un evento di portata storica e attirare l’attenzione verso i suoi aspetti secondari, ricorrendo a strategie comunicative che appaiono finalizzate più al sostentamento dei media stessi (intesi innanzitutto come realtà imprenditoriali) piuttosto che all’obiettivo di fare informazione.
Alessandra Ferrini espone infatti al Maxxi una video-installazione che ripercorre il modo in cui i giornali italiani, in particolare il quotidiano La Repubblica, diedero notizia della prima visita ufficiale in Italia di Muammar Gheddafi nel 2009.
Inutile girarci intorno: di quel viaggio intrapreso per firmare il cosiddetto “Trattato di amicizia, partenariato e collaborazione tra Italia e Libia” gli italiani ricordano essenzialmente l’uso e l’esposizione dei corpi delle donne di cui il dittatore libico (che verrà ucciso due anni dopo) amava circondarsi – o far credere di circondarsi, proprio come Silvio Berlusconi, principale cerimoniere della visita.
Ma una parte della società civile, anche in Italia, riconosceva in quello sfarzo, in quell’esibizione di maschilità senile, in quegli elenchi dei cibi scelti per ristorarsi, in quell’ipersessualizzazione dei corpi femminili usati al pari di uno sponsor, un tentativo non così accorto di nascondere la vera ragione dietro al trattato, ovvero la volontà di assicurarsi l’approvvigionamento di carburante e fermare i flussi migratori in arrivo (“Io non respingo” e “Io non ti voglio incontrare”, rivolta a Gheddafi, erano i nomi di due campagne in quelle settimane, promosse da Fortress Europe, Come un uomo sulla terra e molte altre realtà).
Le manifestazioni che diverse associazioni e collettivi organizzarono all’epoca, mostrarono infatti, meglio dei media e con più rigore, ciò che oggi, con ancora più morti nel Mediterraneo, è più chiaro: il passaggio del dittatore libico a Roma deve essere valutato adesso come un momento tristemente rilevante nell’intero piano di contrasto dell’immigrazione che i governi italiani hanno messo in atto negli ultimi quindici anni e nel quale rientrano la gestione dei soccorsi e delle richieste d’asilo, il sistema di accoglienza e l’utilizzo dei cosiddetti Centri di permanenza per il rimpatrio (CPR).
Tutti i governi da allora hanno trattato con la Libia, privatamente e apertamente, perché la nostra ex colonia rimane il principale luogo di imbarco dei migranti che raggiungono le nostre coste, vedendosi negato il diritto alla mobilità garantito invece ai cittadini europei.
E pur di siglare quel patto, l’Italia arrivò, sotto Berlusconi, a far passare una somma di denaro (250 milioni di dollari per 20 anni, da utilizzare per costruire infrastrutture) come un risarcimento per i crimini coloniali commessi.
Quando poi il regime di Geddafi cadde, l’Italia chiese aiuto in Europa per far rispettare alla Libia quella compravendita, e tornò dopo qualche anno a trattare con Tripoli, nonostante il Paese non sia mai diventato un porto sicuro.
Negli ultimi cinque anni il nostro parlamento ha sempre scelto di rinnovare il Memorandum of Understanding (MuO), erede di quell’accordo.
Tornando all’opera in mostra al Maxxi, il viaggio di Geddafi prevedeva l’incontro con il presidente del Consiglio, Silvio Berlusconi, il presidente della Repubblica, Giorgio Napolitano, il ministro degli Esteri, Franco Frattini, il presidente del Senato, Renato Schifani, il presidente della Camera Gianfranco Fini e il ministro per le Pari Opportunità, Mara Carfagna, ma anche i vertici di Confindustria, il sindaco di Roma, Gianni Alemanno, e ovviamente Massimo D’Alema, primo promotore dell’alleanza con la Libia: è evidente come il tour fosse stato immaginato per aprire ad un progetto più ambizioso e duraturo.
Ma è proprio considerando il punto di vista dei destinatari finali del cosiddetto accordo che Alessandra Ferrini ha realizzato l’ installazione: come ha spiegato alla stampa, a Londra, il confronto con un amico di origine libica con status di richiedente asilo le ha permesso, da migrante europea con privilegio bianco, di rafforzare un posizionamento politico già affermato in opere precedenti.
Ferrini, studiosa dell’epoca postcoloniale, degli imperialismi e del fascismo, sa come anche le immagini, statiche o in movimento, reali o create da artisti, condizionino i vissuti. Non è un caso che la Rai rifiuti tuttora di mandare in onda persino un film su quella stagione, ossia il Leone del deserto di Mustafa Akkad, la cui distribuzione fu impedita per volontà di Giulio Andreotti e altri, e ad oggi solo Sky lo ha mandato in onda.
Così come non è un caso che i lettori di molti importanti quotidiani italiani non riconoscano l’immagine che Gheddafi portò sul petto arrivando a Roma, quella di Omar al-Mukhtar, leader della resistenza anti-coloniale: non ne sanno nulla.
Gaddafi in Rome, che da sola vale una tappa al Maxxi, è un’esortazione a riflettere su come l’informazione sia necessaria – ad esempio per capire cosa nasconde il termine “amicizia” in un trattato come quello oggetto di tale ricerca – ma ancora di più su come i media oggi, con i loro tentativi di sopravvivere, assecondando ciò che ritengono possano essere gli interessi dei followers (ops, dei lettori) stiano rinunciando alla missione che gli è data in origine, ossia restituire i fatti di cronaca e denunciare gli abusi di potere.
Le sfide poste dai concorrenti digitali della carta stampata non dovrebbero essere un pretesto per abbassare ogni giorno di più la qualità dell’informazione, sostituendola gradualmente con contenuti costruiti per creare scandalo o basati sul gossip. Il giornalismo dovrebbe piuttosto denunciare i maldestri tentativi della classe politica di convogliare l’attenzione dei cittadini su temi altri rispetto alle reali necessità (e la libertà di movimento e un’accoglienza degna sono tra queste).
Gli effetti dell’inazione di molti e del mancato servizio reso da alcuni dei principali quotidiani sono ora ancora più evidenti: i politici che accolsero Gheddafi a braccia aperte, nel 2022 siedono stabilmente in parlamento.
Compresa Mara Carfagna che da ministro per le Pari Opportunità, organizzando un incontro tra Gheddafi e oltre 700 donne.
Notizie che andrebbero date sia in forma di cronaca, sia con editoriali critici e approfondimenti fatti da esperti, mantenendo la complessità come obiettivo anche quando si tratta di questioni che richiedono uno sforzo ulteriore come quelle geopolitiche.
Nessun piano aziendale, nessun modello di business, dovrebbe significare per i giornali una rinuncia al monitoraggio puntuale di quanto accade dentro e fuori il Parlamento.
Il fatto che oggi diversi giornali abdichino al proprio ruolo rende l’opera di Alessandra Ferrini, in transito tra i linguaggi ma ferma del condannare la violenza politica e il giornalismo al suo fianco, un lavoro che merita di avere un seguito.
Chiara Zanini
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