Dario Nincheri
Gerusalemme, ottobre 2022
Osserva i comandi del Signore, tuo Dio, camminando nelle sue vie e temendolo, perché il Signore, tuo Dio, sta per farti entrare in una buona terra: terra di torrenti, di fonti e di acque sotterranee, che scaturiscono nella pianura e sulla montagna; terra di frumento, di orzo, di viti, di fichi e di melograni; terra di ulivi, di olio e di miele; terra dove non mangerai con scarsità il pane, dove non ti mancherà nulla; terra dove le pietre sono ferro e dai cui monti scaverai il rame. Mangerai, sarai sazio e benedirai il Signore, tuo Dio, a causa della buona terra che ti avrà dato.
Così parla il Deuteronomio, quinto libro della Torah (la testo sacro ebraico), a proposito della terra promessa. A ben vedere però i Territori, più che terra fertile di torrenti e frumento, sono adesso un sistema dove interventi architettonici e caratteristiche naturali sapientemente ridisegnate realizzano una vera e propria occupazione civile.
“Il paesaggio, plasmato dai processi paralleli di costruzione e distruzione, diventa in questo modo non solo immagine, ma strumento del potere”, spiega Eyal Weizman, architetto e ricercatore israeliano che vive e insegna a Londra.
Eyal è il fondatore di Architettura Forense (FA), un’agenzia di ricerca indipendente nata con l’obiettivo di studiare le tracce lasciate nell’ambiente da eventi distruttivi traumatici, come le macerie di un edificio bombardato o i frammenti di proiettili e le loro traiettorie, per fare luce su crimini di guerra e violazioni dei diritti umani.
Da molti anni l’istituto studia anche l’impatto dell’apparato di controllo israeliano sui cittadini palestinesi (vedi Architettura dell’occupazione. Spazio politico e controllo territoriale in Palestina e Israele, Mondadori ed.) e le conseguenze inaspettate che la sua applicazione ha avuto su diversi aspetti della vita nella regione, tra cui la gestione dell’emergenza Covid-19.
Quando la pandemia ha colpito all’inizio del 2020, i Paesi hanno applicato misure molto diverse tra loro per limitare la diffusione della malattia e, tra le varie strategie di gestione del problema, quella messa in atto da Israele si è rivelata particolarmente efficace.
Quanto l’apparato di controllo israeliano sui cittadini palestinesi abbia influito sul successo avuto nel tracciamento dei contagi da Covid-19 è un argomento di indubbio interesse.
Durante il periodo più acuto della crisi, in molte parti del mondo c’è stata una forte tensione tra l’esigenza di controllo della malattia e la paura che lo stato di emergenza potesse diventare la norma; c’era il timore che molte delle misure adottate, soprattutto se fossero rimaste in vigore dopo la fine dello stato di necessità, avrebbero costituito una grave minaccia alle libertà civili, alla privacy e alle possibilità di azioni collettive.
In Israele un dibattito di questo tipo è rimasto sempre decisamente marginale, perché il Paese è abituato a vedere trasformare lo stato di eccezione in regola ormai da diversi decenni.
Lo stesso muro di separazione (la barriera che separa fisicamente Israele dalla Cisgiordania) era stato presentato come una misura di sicurezza temporanea – definizione utile sia ad avere rapido accesso alla requisizione delle terre sia a non far storcere troppo il naso all’opinione pubblica internazionale – e sappiamo bene com’è andata a finire: due decadi dopo i suoi 730 km di cemento sono ancora profondamente piantati nella terra e dentro l’anima del mondo, che non si permette di mettere in discussione la sua esistenza.
Così quando Benjamin Netanyahu ha approvato, nel corso di una notte, l’uso di misure aggressive di raccolta e supervisione dei dati personali dei cittadini, al fine di impiegarli per monitorare i pazienti affetti da coronavirus, nessuno si è scandalizzato più di tanto.
Il fatto che si stessero utilizzando procedure sviluppate per uso militare nei territori occupati è passato decisamente in secondo piano.
In fin dei conti certe pratiche invasive sono all’ordine del giorno in Israele, chiunque sia sospettato di compiere attività contro lo Stato è considerato un nemico, se non addirittura un terrorista, e come tale viene trattato.
La conseguenza di questa etichetta è che si è inseriti in un sistema di controllo che registra tutte quante le attività di un presunto sospetto. Dal momento che un soggetto così marchiato incontra un’altra persona esso diviene una preziosa fonte di dati sensibili, perché quella persona a sua volta ne incontra altre, parla al telefono, riceve e invia e-mail a persone che a loro volta comunicano con altri.
Tutti quanti questi contatti vengono tracciati e formano un sistema di relazioni, una sorta di rete terroristica che viene costantemente monitorata.
Lo stesso sistema è stato usato per tracciare il virus. Secondo gli esperti di FA, Israele ha potuto avere tanto successo nel tracciamento dei contagi da Covid-19 proprio grazie all’esperienza accumulata nella sorveglianza dei palestinesi.
In effetti la competenza israeliana riguardo i sistemi di controllo parte da lontano, già l’articolo 10 del primo allegato dell’accordo di Gaza-Gerico, firmato nel 1994, tratta dei cosiddetti valichi, formalmente punti di interfaccia tra diverse categorie di amministrazione territoriale (ANP e Israele), in pratica specchio dell’esigenza degli israeliani a mantenere il controllo sui movimenti dei cittadini palestinesi, monitorando e registrando ogni loro spostamento.
Oggi l’apparato di sorveglianza è in gran parte digitalizzato. Il controllo fisico del territorio è fondato sugli insediamenti dei coloni, le strade che li connettono, i posti di blocco e il muro che serpeggia attraverso le zone abitate, ma è diventato più sofisticato che in passato.
“Esiste uno strumento, che l’esercito israeliano chiama Palestinian Facebook – ha dichiarato Weizman alla stampa – tramite il quale la faccia di ogni palestinese viene fotografata più volte da telecamere piazzate ai checkpoints, lungo le strade e nei punti di controllo del traffico; anche i soldati fotografano in continuazione chiunque. Tutte le comunicazioni wireless dei palestinesi sono intercettate e localizzate, e un apparato di sensori di movimento, droni e satelliti controlla ogni spostamento sul terreno. Poi tutto finisce in un gigantesco database in cui è ritratto quasi ogni singolo cittadino palestinese”.
La telefonia non è messa meglio, ogni telefono cellulare è potenzialmente sotto sorveglianza. Pegasus, il famigerato spyware prodotto dalla israeliana NSO Group, fornisce l’opportunità di spiare i dispositivi di chiunque, clamoroso è stato il caso dell’installazione del software sui dispositivi di politici, funzionari, sindaci e leader di movimenti ebraici di protesta senza l’esplicito consenso di un magistrato e in assenza di indagini ufficiali in corso.
Il Paese, inoltre, è disseminato di dispositivi creati con l’ambiguo obiettivo di rendere le città intelligenti: lettori di targhe, monitoraggio del traffico, controllo del flusso in entrata e in uscita dalle aree della Cisgiordania.
Tecnologie che vengono implementate e fatte digerire alla popolazione mettendo in relazione la specificità del conflitto israelo-palestinese con la generale tendenza a focalizzare le ansie securitarie sulla gestione della sicurezza.
Tutta questa enorme mole di dati è stata utilizzata per contenere il virus, applicando una ridistribuzione delle tecnologie del controterrorismo, e degli strumenti per gestire l’occupazione, verso l’interno dello stesso Stato di Israele.
Si è perciò creata una forma di militarizzazione della situazione medica, gestita utilizzando i sistemi di sorveglianza digitali e algoritmici testati e perfezionati sulla popolazione palestinese in decenni di occupazione.
Dario Nincheri
waxer79@gmail.com
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