Michael Backbone
Nairobi, 8 agosto 2022
Domani oltre 22 milioni di kenioti si recheranno dalle 6 di mattina in poi agli uffici elettorali per scegliere il loro nuovo presidente della Repubblica: si vota anche per scegliere deputati, senatori, governatori, assessori e via discorrendo. I candidati sono 16 mila.
Il presidente uscente Uhuru Kenyatta ha già esaurito i suoi due mandati e, per la Costituzione, non può più essere eletto. Si deve scegliere non solo il suo successore, ma anche l’intero corpo esecutivo della macchina statale a tutti i livelli del Paese. Un mare di schede elettorali, circa 140 milioni da distribuire ovunque.
Ai lettori che non sono cittadini del Kenya, l’interesse della contesa ovviamente si incentra sull’esito dell’elezione per il presidente. Dopo le ripetute scremature operate dalla Commissione Elettorale Indipendente (IEBC), i candidati alla prima carica dello Stato sono scesi dai 17 iniziali a 4, che fattualmente sono coppie perché per ogni candidato presidente, il ticket prevede anche il “running-mate” ossia il candidato alla vice presidenza.
Nell’ultima (e corrente) legislatura, Uhuru Kenyatta era fiancheggiato da William Ruto, un’alleanza di ferro con affiliazioni alla tribù Kikuyu, la più popolosa nel Paese e la tribù Kalenjin, ossia la terza per ordine di importanza nel Paese.
Due tribù molto diverse: la prima di derivazione bantu, la seconda nilotica.
Le elezioni del 2017 furono annullate per manifesti errori nel computo delle schede. La loro ripetizione nell’ottobre dello stesso anno di fatto confermò e sancì la vittoria del ticket Kenyatta-Ruto: il contendente “storico” alla stessa poltrona Raila Odinga dimostrò alto senso civico poiché preferì agire per via costituzionale piuttosto che gettare il Paese nell’incubo vissuto dieci anni prima.
Il risultato finale rappresentò la quarta sconfitta di Odinga, ma la perseveranza del perdente di ieri è nuovamente rimessa alla prova nella consultazione elettorale di martedì prossimo, per la quinta volta.
Dopo un incredibile gioco di trasformismi politici, cambi di casacca e pugnalate alle spalle, un’alleanza quanto mai inverosimile tra il Presidente odierno Uhuru Kenyatta e il suo avversario (perdente) di sempre, Raila Odinga, si è materializzata all’incirca due anni fa con un enfatica e molto mediatizzata “stretta di mano”.
Giano bifronte sarebbe considerato un principiante, se paragonato a questi due ex-avversari, la cui nuova unione ha di fatto escluso colui il quale pensava che dopo due termini di ticket con Kenyatta, potesse presentarsi come rappresentante della terza tribù del Paese, alla prima carica dello Stato ossia William Ruto.
Ma c’è un dilemma da risolvere. Il presidente attuale non può, per la Costituzione essere più ricandidato.
Ed ecco che la strana coppia inventa un processo di revisione costituzionale che con l’ipocrita indifferenza della comunità internazionale, ambisce a creare una Repubblica presidenziale, riorganizzando di fatto l’organigramma del governo, introducendo la figura del primo ministro, con la maggioranza dei poteri, e un presidente, con un ruolo maggiormente onorifico, alla stregua del modello in vigore in Etiopia.
Enfaticamente, la retorica del documento chiamato “Building Bridges” si prefigge di riorganizzare il governo keniota secondo un modello per programmi o idee e non più secondo affiliazioni tribali.
Sicuramente un intento lodevole, ma in realtà i detrattori del progetto lo vedono come un accrocchio per mantenere al potere il gruppo esecutivo corrente, e forse anche con buona pace della pubblica opinione.
La riforma costituzionale deve essere approvata dalle Camere in sessione plenaria. Sicura di vincere, la strana coppia Kenyatta-Odinga avrebbe poi condiviso le cariche a danno del vicepresidente attuale, William Ruto, nonché candidato presidenziale per la futura elezione, quella l’attuale.
La ciambella però non riesce con il buco, perché la Corte Costituzionale rileva vizi formali e costituzionali nel progetto di revisione che quindi non passa mai al voto rimanendo un “cahier d’intentions” ormai riposto in un cassetto.
A fronte di questa vittoria morale delle opposizioni, con cui si schiera ovviamente William Ruto, due anni fa cominciano le trame per l’elezione del presidente. Si rinsalda così l’alleanza iniziata con quell’iconico ”handshake” Kenyatta-Odinga.
Ora si sono chiuse anche le battute finali di una campagna elettorale che è stata lunga, bellicosa, a 360 gradi sui social media con molteplici accuse di uso di fake news ad opera di organizzazioni di difesa dei diritti politici e opinionisti. Da ieri, è in vigore “il silenzio di riflessione”.
Più nel male che nel bene, la competizione elettorale ha scandito a gran voce il calendario di parte del 2021 e tutto il 2022 sino ad oggi: la rosa dei candidati è adesso ristretta dagli originali diciassette candidati a quattro ticket e possiamo partire dai più patetici per risalire verso i maggiormente papabili.
In ultima posizione di questa graduatoria popolana David Mwaure Waihiga, un avvocato di 65 anni, in tandem con Ruth Mucheru Mutua, portano il vessillo del partito chiamato in swahili Agano, ossia promessa in italiano.
Mwaure è anche un predicatore, che combina il proselitismo religioso con l’attività forense.
Le opzioni per questa coppia sono infime, i sondaggi li piazzano a meno del 1 per cento delle preferenze anche se il candidato presidenziale non è nuovo a passati tentativi, sia per le presidenziali del 2013 (dove si ritirò) sia in altre non meno positive avventure elettorali per posizioni elettive mai raggiunte.
Mwaure è un Kikuyu, la tribù dominante per numeri, ma visibilmente non sarà che una “lepre” in caso di ballottaggio dei due più quotati, barattando sicuramente il suo pacchetto di voti per una posizione nel futuro governo. Tutto il mondo è Paese.
In penultima posizione il candidato più iconoclasta, George Wajackoyah, un avvocato di 63 anni in coppia con Justina Wamae e a capo di un surreale partito chiamato Roots di ispirazione Rastafariana che ha come programma elettorale una decisa sterzata anticonformista, proponendo come manna per l’economia keniana in difficoltà. lo sviluppo, la produzione e la legalizzazione della cannabis più o meno allucinogena, l’allevamento di serpenti per il loro veleno e il commercio dei testicoli di iena (testuale) esportati verso la Cina che a suo dire pagherebbe questi prodotti a peso d’oro, risollevando le sorti dell’economia del suo Paese.
Sembra però che vi siano disaccordi tra candidato presidente e vice presidentessa che non si parlano da un mese e la cui conferma in lista pare messa in dubbio, tuttavia ancora una volta le loro possibilità sono vicine all’uno per cento.
Per finire, i due ticket contendenti da cui a seconda dei sondaggi, a volte molto parziali, emergerà il nuovo presidente e vicepresidente.
Raila Odinga, il quattro volte perdente alle presidenziali dal 1992 in poi, in ticket con Martha Karua, l’irriducibile Ministro della Giustizia della Presidenza Kibaki del 2007.
Quell’anno l’elezione, risolta in meno di 24 ore con un giuramento contestato, accese la miccia delle rivolte terminate con più di 1,000 morti.
La Karua è conosciuta per avere tenuto testa proprio nel Gennaio 2008 in un’intervista a Hard Talk, il ruvido programma della BBC, e al suo intervistatore Sir Edward Clay, difendendo il governo del quale era stata nominata ministro. Ma poco dopo aveva rassegnato le dimissioni per via della corruzione dilagante in quell’esecutivo che era frutto del compromesso imposto da Condoleezza Rice e Kofi Annan per cessare le poteste che avevano provocato un bagno di sangue.
Odinga, il redivivo, ha 77 anni ed è di etica luo. Ha perso quattro volte la sfida delle urne sotto regimi diversissimi, da Moi sino a Kenyatta figlio nel 2017. Adesso sembra che con gli accordi e l’ultimo cambio di casacca potrebbe finalmente coronare il sogno di diventare il leader del suo Paese.
Infine, William Ruto, 55 anni, kalenjin ma figlio di un Dio minore perché inviso all’establishment della sua tribù che ha avuto in Daniel Arap Moi il suo più alto rappresentante come presidente (perenne) per 24 anni ,dopo la morte di Jomo Kenyatta, il padre dell’Indipendenza.
Ruto per due mandati è stato vicepresidente di Uhuru Kenyatta, e da due anni a questa parte ha assistito al tradimento politico del suo “capo”, che ha scelto un percorso con Raila Odinga invece del patto non scritto che prevedeva alternanza al potere alla fine del mandato corrente di Kenyatta.
Attivo, non fumatore, astemio, alacre lavoratore dall’alba al tramonto e oltre, Ruto ha scelto come suo vice un kikuyu, Rugathi Gachagua, rendendo in sostanza la pariglia al suo partner Kenyatta con la scelta di un candidato che potesse generare un’emorragia di voti al principale serbatoio elettorale del paese, i kikuyu.
Ma allora, chi vince?
Secondo gli ultimi sondaggi, il ticket Odinga-Karua godrebbe del 48 per cento dei consensi, mentre quello dei loro antagonisti si assesterebbe attorno al 42.
In sostanza il ballottaggio sembra essere l’opzione più verosimile: la sensazione è che la battaglia sarà all’ultimo voto, ma alla seconda tornata, prevista entro 30 giorni dalla conclusione della prima.
Di diverso avviso sono le testate internazionali, secondo cui la corsa tra i due contendenti molto più sul filo del rasoio, comunque non con una maggioranza conclamata il che offre parecchi elementi di rischio tipici di queste giovani democrazie.
Il primo elemento di rischio è rappresentato da un possibile risultato bulgaro con un divario cioè pesante tra i due schieramenti. Si potrebbe presentate lo scenario peggiore con rivolte e violenze generalizzate nelle città e nei villeggi.
La situazione potrebbe essere risolta democraticamente con il percorso previsto del ricorso alla corte suprema con un contenzioso legale da sbrogliare dal corpo legislativo come già avvenuto nel 2017, invalidando le elezioni e ordinandone delle nuove. Sarebbe un precedente sicuramente di peso e positivo.
Se invece le schermaglie vedessero emergere le due forze con pesi pressoché eguali e senza maggioranza, si rimanderebbe la tenzone a un ballottaggio che potrebbe dividere scindere le parti in maniera definitiva e probabilmente senza spargimenti di sangue.
Le previsioni sembrano propendere per il ballottaggio, sempre che la commissione elettorale IEBC locale dimostri equilibrio, imparzialità e integrità nel processo, tuttavia la stessa commissione elettorale è stata nelle ultime due consultazioni nell’occhio del ciclone per decisioni discutibili, sia in termini dei discutibili controlli effettuati sullo scrutinio elettorale ma anche in termini di equità di giudizio, visibilmente influenzati da interessi di parte. questi comportamenti non hanno contribuito ad offrire un’immagine molto trasparente del sistema elettorale keniota.
L’auspicio è che questo processo logorante durato così si compia con ordine e tranquillità. e che si concluda con un risultato accettabile e accettato dalle parti, un po’ come succede in altre parti del mondo seppur non ovunque.
Michael Backbone
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