Cornelia I. Toelgyes
6 agosto 2022
Nuovo colpo di scena nella travagliata Repubblica del Sud Sudan, il più giovane Stato della terra, che ha avuto l’indipendenza dal Sudan solamente nel luglio 2011. Le elezioni, previste per febbraio 2023, sono state rinviate al 2025. Dunque il governo di transizione, formato nel febbraio 2020, rimarrà al potere per altri due anni.
Il governo di Juba, ha presentato giovedì una nuova tabella di marcia, volta ad “affrontare le sfide che ostacolano l’attuazione dell’accordo di pace del 2018. Gran Bretagna, Norvegia e Stati Uniti, che hanno appoggiato e sostenuto il processo di pace, non hanno per nulla apprezzato il nuovo rinvio. I rappresentanti dei tre Paesi hanno respinto la proroga, in quanto i leader sud sudanesi non hanno consultato la popolazione.
Il capo di Stato, Salva Kiir, ha precisato: “Non stiamo prolungando la transizione perché voglio rimanere al governo più a lungo. Non vogliamo essere precipitosi, perché indire nuove elezioni ora, potrebbe riportarci in guerra”.
Riek Machar, il vicepresidente del Paese, ha confermato che non c’è stata altra scelta che prorogare la tornata elettorale.
Infatti molte clausole dell’accordo del 2018 – come la stesura di una costituzione, la riforma della gestione delle finanze pubbliche e la creazione di istituzioni giudiziarie – non sono ancora state attuate, in parte a causa delle dispute tutt’ora in corso tra Kiir e Machar, malgrado avessero avessero accettato di governare insieme nel 2020.
Martin Elia Lomuro, ministro degli Affari di Gabinetto (un dicastero del Sud Sudan), ha evidenziato che l’articolo 8.4 del trattato di pace, dà alle parti la possibilità e il diritto di estendere la transizione.
Mentre il leader dell’opposizione, Lam Akol, leader di National Democratic Movement (NMD), ha preso le distanze dalla decisione del governo di prolungare il mandato. Ritiene che si tratta semplicemente di una tattica per mantenere la poltrona.
Intanto la situazione umanitaria nel Paese è drammatica. Secondo un rapporto World Food Programme, il 75 per cento della popolazione – vale a dire 8,3 milioni di persone – vivono in estrema insicurezza alimentare. Due milioni, tra donne e bambini sotto i cinque anni, soffrono di malnutrizione grave.
La guerra è ufficialmente terminata, ma la pace è ancora lontana, scontri tra comunità sono all’ordine del giorno. Dall’inizio dell’anno sono state uccise centinaia di persone a causa di razzie di bestiame e vendette a sfondo etnico.
La guerra civile, scoppiata nel 2013, è costata la vita a quasi 400 mila persone. Ancora oggi i rifugiati nei Paesi limitrofi sono oltre 2,3 milioni, mentre gli sfollati sono 1,3 milioni.
Correva l’anno 2011, quando i primi di febbraio Omar al Bashir, allora presidente del Sudan, annunciava i risultati del referendum: il 98,83 per cento delle schede a favore della secessione; i sud sudanesi scelgono l’indipendenza. La vittoria dei sì – giunta dopo oltre trent’anni di guerra – viene festeggiata nelle città e nei villaggi del sud. Ma, secondo gli accordi di pace, l’indipendenza viene proclamata il 9 luglio 2011.
Ora, dopo anni di guerre, bisogna ricostruire la nazione. Un compito non facile, dopo la feroce repressione attuata dall’etnia araba, contro gli altri abitanti. Una guerra civile che aveva causato migliaia di morti e fatto precipitare il Paese in estrema povertà. Poco dopo l’indipendenza è poi scoppiato un conflitto tra i leader dei diverso gruppi etnici: il presidente Salva Kiir Mayardit (dinka), Rieck Machar Teny Dhurgon (nuer), e Lam Akol Ajwin (shilluk). La pace è a tutt’oggi una parola sconosciuta per gran parte dei sud sudanesi.
Cornelia I. Toelgyes
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