Dal Nostro Corrispondente Sportivo
Costantino Muscau
14 luglio 2022
“Chiamatemi Hussein Abdi Kahin. Questo è il mio vero nome, non Mo Farah”. L’incipit non è memorabile come quello di Moby Dick (Chiamatemi Ismaele), ma merita di diventarlo. Se per Ismaele andare in mare fu la salvezza, per Hussein Abdi Khain/Mo Farah correre in pista è stata la rinascita, il riscatto, la gloria.
Quattro volte campione olimpico sui 5 e 10 mila metri nel 2012 a Londra e nel 2016 a Rio; 6 volte campione mondiale; detentore del record mondiale dell’ora e di quello europeo dei 10.000; insignito dalla regina Elisabetta del titolo di sir nel 2017 per meriti sportivi.
Conquiste ottenute con nome e identità falsi, dopo essere entrato illegalmente nel Regno Unito, vittima innocente della tratta di minori attuata in Africa e di schiavitù domestica subita a Londra. Aveva sempre raccontato di essere arrivato in UK dalla Somalia con i suoi genitori, come rifugiato. Anche nel film No easy mile sbarcato su Netflix nel 2021, aveva nascosto la verità.
Dopo 30 anni, la leggenda dell’atletica mondiale e britannica (oggi ha 39 anni) apre il libro del suo passato e rivela una storia sconvolgente di dolore e sopraffazione. Lo ha fatto in un documentario prodotto dalla BBC eRed Bull Studios e messo in onda mercoledì 13 luglio.
Dovrebbe – si spera – far riflettere su chi infierisce contro gli immigrati irregolari, soprattutto se bambini.
La star dell’atletica ha raccontato: “Tutti mi chiamano Mo Farah. Questo però non è il mio vero nome. La realtà è un’altra: io sono nato in Somaliland, nel nord della Somalia. E sono Hussein Abdi Kahin. Contrariamente a quanto ho detto in passato, i miei genitori non hanno mai vissuto nel Regno Unito. Quando avevo 4 anni, mi padre Abdivenne fu ucciso nella guerra civile. La mia famiglia andò in pezzi, fui separato da mia madre, Aisha, che vive in Africa con due miei fratelli. E che ho incontrato dopo molti anni.
Fui mandato da familiari mai visti a Gibuti. Qui finii in mano a una donna che non conoscevo e che non era neppure parente. Mi portò nel Regno Unito illegalmente. Non ero mai stato su un aereo prima, ero eccitato. Nel visto di ingresso, avevo 9 anni, la foto è mia, ma col nome di un altro bambino, Mohamed Farah….”
Gli avevano detto che sarebbe andato in Europa per vivere con i parenti: finì in un appartamento di Hounslow, periferia occidentale di Londra, dove la megera aguzzina davanti al bambino ridusse in pezzettini il pezzo di carta con i contatti dei suoi parenti (o presunti tali) e lo gettò in un cestino.
“In quel momento – ha raccontato Sir Mo alla Bbc – ho capito di essere nei guai”. E in effetti i suoi guai erano appena cominciati: per potersi sfamare fu obbligato a effettuare i lavori domestici, a badare ai bambini e a tenere la bocca chiusa: “Se mai vuoi rivedere la tua famiglia, non dire niente!”, lo minacciò, infatti, la trafficante di bambini, che rintracciata dalla Bbc, non ha voluto parlare.
““Spesso mi chiudevo in bagno e piangevo”, ha commentato in TV, il podista. Per i primi anni quella famiglia gli impedì anche di frequentare la scuola, poi, ormai undicenne, lo iscrisse al Feltham Community College (oggi Springwest Academy) dichiarando che si trattava di un rifugiato somalo.
La sua vecchia tutor, Sarah Rennie, nel documentario della BBC ha spiegato che il ragazzino appariva “trascurato, emotivamente e culturalmente alienato e parlava pochissimo inglese”.
Alla professoressa, però, non sfuggì il fatto che quelli che dicevano di essere i suoi genitori, non si facevano mai vedere a scuola, alle attività e incontri programmati. La svolta nella vita del povero bambino avvenne quando l’insegnante di ginnastica, Alan Watkinson, lo vide correre in pista: “L’unica lingua che sembrava capire era la lingua dell’educazione fisica e dello sport”.
E l’attuale baronetto ha confermato: “L’unica cosa che potevo fare per uscire da questa situazione era andare a correre”.
Watkinson nel 2012 ha vinto il premio insegnante dell’anno e al suo fianco nella cerimonia per la consegna del riconoscimento c’era proprio Mo, che già lo aveva voluto come testimone di nozze.
Fra i due si instaurò un rapporto di fiducia e alla fine il ragazzo gli rivelò chi fosse, da dove venisse e come venisse schiavizzato nella famiglia che non era la sua.
Il professore contattò i servizi sociali, che in Gran Bretagna su situazioni del genere sono rapidi e inflessibili. Farah venne affidato a un’altra famiglia somala e da quel momento “tutto è migliorato. Mi sentivo come se molte cose mi fossero state tolte dalle spalle. Allora è uscito fuori Mo, il vero Mo”.
A 14 anni venne invitato a partecipare per le scuole inglesi ad una gara in Lettonia, ma era privo di documento di viaggio. Watkinson lo aiutò a richiedere la cittadinanza britannica con il nome di Mohamed Farah. Gli fu concessa nel luglio del 2000.
E non gli verrà tolta, come ha temuto per un attimo il neo (nato) Hussein Abdi Kahin, perché ottenuta con un atto fraudolento. Anzi: Hussein Abdi Kahin ha ricevuto elogi a non finire dai suoi fans per il coraggio dimostrato nel pubblicizzare il suo passato da irregolare e da incubo.
Il primo a esaltarlo è stato il Cancelliere dello Scacchiere (ministro delle Finanze) Nadhim Zahawi, 57 anni, costretto a fuggire dall’Iraq con la famiglia all’età di 11 anni: “Che uomo meraviglioso, straordinario per aver superato quel trauma dell’adolescenza. Sei un modello, un esempio da imitare”.
“Non mi è stato facile affrontare questo passato che nascondevo a me stesso e agli altri – ha confessato Hussein/Mo -. L’ho fatto su sollecitazione dei miei 3 figli, mi rendo conto di quanto sia stato fortunato. Non avevo idea di quanta gente abbia vissuto e stia vivendo la mia esperienza. E’ giusto che si conosca questa realtà di traffico e di schiavizzazione dei bambini”. Perchè il mercato dei dannati della terra è sempre florido.
Nella storia della rivincita di un piccolo clandestino, non ha importanza il nome del protagonista narratore (così come nel caso di Ismaele di Melville) quanto ciò che egli rappresenta: un reietto venduto e sfruttato che cerca e impara a sopravvivere. Con due buone gambe.
Costantino Muscau
muskost@gmail.com
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