Massimo A. Alberizzi
6 luglio 2022
E sono due. Dopo l’autista di Ilaria Alpi, Ali Abdi, ucciso a Mogadiscio, appena sceso all’aeroporto, ieri una bomba, messa sotto il sedile dell’auto su cui viaggiava nel quartiere di Medina, ha ammazzato Hashi Omar Hassan, il somalo incriminato per la morte della giornalista della Rai e del suo cameraman, Miran Hrovatin, avvenuta il 20 marzo del 1994.
Nessuno finora ha rivendicato l’attentato che quindi viene attribuito a un atto di banditismo. Hashi abitava in Italia, nei pressi di Padova, e si occupava di piccolo commercio. Da qualche giorno era tornato in Somalia per visitare la mamma gravemente malata e non certamente per tornare a viverci.
Non lavorava per guadagnare perché il risarcimento dello Stato italiano per i 16 anni passati ingiustamente in carcere era stato considerevole. 3,8 milioni di euro. Cercava di aiutare la sua gente, soprattutto i più poveri.
E forse sta in quel risarcimento la motivazione del suo assassinio. A Mogadiscio non sfugge la notizia su qualcuno che è “diventato ricco” e in Somalia non è molto difficile procurarsi un mitra o un ordigno necessario per fare saltare un veicolo. E il ricatto, il pizzo, è un fatto generalizzato. Nulla di più facile che qualcuno gli abbia intimato: “Dammi un po’ di quel denaro o ti facciamo fuori”.
Un’ipotesi di questo genere viene confermata anche da Mogadiscio: “Molti degli shebab conoscevano Hashi e soprattutto sanno che poteva disporre di grandi quantità di denaro. Nulla di più facile che gli abbiano chiesto “il pizzo”. Una forma di finanziamento per la congregazione islamista”.
“Dopo la scarcerazione – racconta un suo amico che lo conosceva bene – era già stato in Somalia e aveva ricevuto pesanti minacce. Gli avevano chiesto soldi ma lui aveva rifiutato. ‘I soldi mi servono per aiutare i somali, non per ammazzarli’, diceva. Non era più tornato”.
E allora perché quattro giorni prima di morire è rientrato? “Sua mamma – spiega il nostro interlocutore che per motivi di sicurezza non vuole si faccia il suo nome – è in condizioni di salute gravissime e potrebbe morire da un momento all’altro. Voleva rivederla ancora una volta e si è precipitato in Somalia. Si è armato di gran coraggio perché sapeva che avrebbe rischiato la vita e c’era qualcuno pronto a farlo fuori”.
“Era generoso. Con il denaro del risarcimento – raccontano ancora da Mogadiscio – cercava di aiutare la popolazione prostrata da 30 anni di guerra civile. Aveva finanziato la costruzione di pozzi ad Adale, il villaggio che si chiamava Italo (durante il periodo di colonizzazione italiana), poco a nord di Mogadiscio, dov’era nato. Il padre di Hashi invece abitava in Svezia dove si è rifugiato un po’ di anni fa ed è morto da pochi mesi”.
La società somala è organizzata in cabile, cioè in tribù, in forte antagonismo tra loro ma anche con robusti legami di solidarietà interna. Hashi apparteneva al clan abgal, sottoclan agonier, famiglia abdallah arone. Gli abgal, assieme agli habergidir, costituiscono la spina dorsale degli shebab, i terroristi legati ad Al Qaeda che danno un gran filo da torcere agli occidentali.
Aden Sabrie, è il giornalista somalo dalla BBC, che ha scovato il testimone Gelle con cui Hashi prima era stato incastrato e poi, grazie alla sua ritrattazione, liberato. Racconta: “L’avevo scongiurato di non partire, gli avevo chiesto di prendere sul serio quelle minacce. Invece lui è voluto andare lo stesso”.
Ironia della sorte il destino di Hashi è stato molto simile a quello dell’altro suo accusatore, l’autista di Ilaria e Miran, Ali Abdi. Suo grande accusatore. Ali aveva testimoniato di aver visto Hashi nel commando che aveva sparato ai giornalisti italiani.
Ali era l’autista della Panda che avevo noleggiato per diversi mesi a Mogadiscio, quindi lo conoscevo assai bene. Incontrato in Italia durante il processo mi aveva confessato che avrebbe voluto restare nel nostro Paese e non tornare mai più in patria. La testimonianza gli era servita per questo. Era convinto che accusando Hashi sarebbe potuto restare da noi.
La nostra conversazione avvenuta durante una delle udienze del processo era stata bruscamente interrotta da una delle guardie che lo teneva d’occhio. Non ho avuto mai la possibilità di proseguire e approfondire. Abitava in un appartamento vicino Roma.
Ali però era stato poi raggiunto da una proposta: “Se torni in Somalia ti diamo 50 mila euro”. Presi i soldi è stato messo su un aereo e rimpatriato. A Mogadiscio c’è rimasto un paio di giorni poi qualcuno l’ha ammazzato. Nella capitale somala erano convinti che a ucciderlo siano stati i familiari e gli amici di Hashi, per vendicare la sua testimonianza.
Massimo A. Alberizzi
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(1-continua)
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