AFRICA

Pugno di ferro in Etiopia: ondata di arresti nell’Amhara, mentre senza cibo e rifornimenti il Tigray muore

Speciale per Africa ExPress
Cornelia I. Toelgyes
24 maggio 2022

Continua l’ondata di arresti nell’Amhara, nel nord dell’Etiopia. Oltre 4.000 persone sono state fermate nella regione, tra loro anche giornalisti e combattenti di FANO (gruppo giovanile armato Amhara) che fino a poco fa ha combattuto accanto alle truppe etiopiche contro i “ribelli” del Tigray.

Etiopia: ondata di arresti

Infatti, le autorità dell’Amhara hanno sostenuto il primo ministro Abiy Ahmed e l’esercito federale nel conflitto, ma ora sono emerse divergenze sulla gestione della guerra.

“Tra gli arrestati, più di 200 persone sono accusate di omicidio”, ha dichiarato il funzionario della sicurezza dello Stato Amhara, Desalegne Tasew, all’Amhara Media Corporation, incolpandole di “attività illegali” a nome del gruppo paramilitare Fano. Però non è chiaro perchè siano state imprigionate ben 4.000 persone, e quali siano le incriminazioni nei loro confronti.

Pochi giorni fa, la Commissione etiopica dei diritti umani (EHCR), organismo indipendente pubblico, ha fatto sapere che molti sono stati incarcerati arbitrariamente, senza essere stati portati davanti a un tribunale.

In carcere è finito anche un generale, Tefera Mamo, rimosso lo scorso febbraio, senza alcuna spiegazione, dall’incarico di comandante delle truppe amhara. E’ stato arrestato poco più di una settimana fa a Addis Ababa, dopo aver rilasciato un’intervista televisiva, durante la quale ha criticato aspramente il primo ministro, la sua strategia militare nei confronti del Tigray e il TPLF (Fronte Popolare di  liberazione del Tigray). Ha poi rincarato la dose, accusando i membri di etnia amhara del raggruppamento politico di Abiy –  Partito della Prosperità, fondato il 1° dicembre 2019 dallo stesso primo ministro –  di farne parte solamente per interessi personali, per questioni di denaro.

La moglie del generale, Menen Haile, ha detto ai reporter di Reuters che il marito è sospettato di attentato alla personalità dello Stato.

 

Insomma il governo di Abiy non gradisce le critiche. Basti pensare che una decina di giorni fa è stato espulso dal Paese il giornalista Tom Gardner di The Economist. Addis Ababa ha accusato Gardner di “approccio sbagliato” al giornalismo. La colpa del collaboratore della prestigiosa rivista inglese è stata quella di aver riportato in un suo articolo ciò che ha visto in occasione di una sua visita nel Tigray.

Un anno fa la stessa sorte era toccata a Simon Marks, corrispondente di The Times. E all’inizio del mese, il capo della Commissione etiopica per i diritti umani, Daniel Bekele, aveva chiesto la liberazione del giornalista Gobeze Sisay, arrestato perché non in linea con la politica del governo.

E, in occasione della giornata mondiale Stampa libera, il Comitato per la protezione dei giornalisti (organizzazione indipendente, con sede a New York, volta a difendere la libertà di stampa e i diritti dei giornalisti in tutto il mondo), ha lanciato un appello al governo etiopico per la liberazione di due giornalisti, incarcerati con l’accusa di attentato alla personalità dello Stato. Se dovessero essere condannati per tale reato, rischiano la pena capitale.

Sfollati nel Tigray, Etiopia

Le bombe, i fucili tacciono nella travagliata regione del Tigray dalla fine di marzo, quando Abiy ha dichiarato un cessate il fuoco per questioni umanitarie. Ora è la fase dell’assedio, della fame che si espande a macchia d’olio. Secondo PAM (Programma alimentare mondiale) già a fine gennaio, l’83 per cento della popolazione del Tigray necessitava aiuti umanitari per sopravvivere, mentre 2 milioni di persone si trovavano in uno stato simile alla carestia.

In base a uno studio condotto dall’Univeristà di Ghent in Belgio, pubblicato a metà marzo 2022, si stima che durante il conflitto in atto siano morte almeno mezzo milione di persone nel Tigray, da 150.000 a 200.000 tra questi di fame o per mancanza di cure mediche. Quasi 1,4 milioni di bambini non possono frequentare la scuola, molte sono chiuse perchè distrutte o perchè utilizzate come campi per sfollati.

Ancora oggi i convogli umanitari arrivano a rilento, l’ONU e i suoi partner non riescono a soddisfare le necessità della popolazione. Un sospiro di sollievo è arrivato la scorsa settimana, quando sono entrati ben 319 camion a Makallé, capoluogo del Tigray.
Mentre il servizio aereo umanitario delle Nazioni Unite (UNHAS) continua a operare con due voli passeggeri a settimana e voli cargo tra Addis Abeba e il capoluogo del Tigray. Giacché gli ospedali sono ancora sprovvisti di molti medicinali e carburante per i generatori, il personale sanitario è costretto a rimandare a casa gran parte dei pazienti.

In questi giorni il TPLF ha dichiarato di essere pronto a liberare 4.000 prigionieri di guerra, tra questi 401 donne. Secondo quanto riportato dai funzionari del TPLF, gran parte delle persone saranno rilasciate grazie a una amnistia, sono state catturate in combattimenti fuori dal Tigray, altre, invece, perchè sono state costrette a arruolarsi.

Secondo quanto riferito da un diplomatico di un Paese straniero, accreditato a Addis Ababa, la liberazione dei prigionieri di guerra sarebbe stata decisa dopo vari colloqui tra comandanti militari della due fazioni. “Purtroppo finora non sono ancora iniziati dialoghi a livello politico”, ha aggiunto.

A tutt’oggi non è stato ristabilito internet, le comunicazioni sono sempre difficili e è praticamente impossibile avere notizie imparziali, in quanto nel Tigray non sono ammessi giornalisti indipendenti.

Sin dall’inizio della guerra in Tigray, scoppiata nel novembre 2020, tra le forze allineate con il governo etiopico e le truppe del TDF (Tigrinya Defence Forces) guidate dal TPLF, il conflitto è stato ampiamente sottovalutato dalla comunità internazionale, nonostante le accuse di crimini di guerra e contro l’umanità formulate da organizzazioni internazionali come Human Rights Watch e Amnesty International.

Cornelia I. Toelgyes
corneliacit@hotmail.it
@cotoelgyes
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Cornelia Toelgyes

Giornalista, vicedirettore di Africa Express, ha vissuti in diversi Paesi africani tra cui Nigeria, Angola, Etiopia, Kenya. Cresciuta in Svizzera, parla correntemente oltre all'italiano, inglese, francese e tedesco.

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