Cornelia I. Toelgyes
3 aprile 2022
Le centinaia di donne scendono lentamente dagli aerei, che dall’Arabia Saudita le hanno riportate in Etiopia. Sono vestite tutte di nero. Indossano l’abaya e molte di loro hanno anche il viso coperto dal niqab. E le poche giovani che non lo portano, hanno il viso scolpito, che non lascia trapelare nessuna espressione, pietrificato dalla sofferenza. Alcune portano un bimbo legato sulla schiena, altre tengono il figlioletto per mano, e nell’altra un sacchetto di plastica con i loro pochi averi, privo di qualsiasi sogno.
Sono tutte giovani etiopiche, costrette a tornare nel proprio Paese dal quale erano fuggite tempo fa in cerca di un futuro, per sé e i proprio familiari.
Alla fine di marzo sono arrivate 900 donne a Addis Abeba. Secondo un accordo siglato recentemente tra l’Etiopia e l’Arabia Saudita, nei prossimi sette mesi saranno rimpatriati centomila etiopi dal regno wahabita.
Un primo gruppo è atterrato all’aeroporto internazionale di Addis Abeba nella mattinata del 30 marzo, un secondo nel pomeriggio dello stesso giorno e, una volta sbarcate, le giovani etiopiche sono state assistite dagli operatori dell’OIM (Organizzazione Internazionale per le Migrazioni). Secondo l’organizzazione non sarà un’impresa semplice dare assistenza, rispondere ai bisogni di centomila persone che saranno rimpatriate. Un impegno non indifferente per il governo, i suoi partner nonché per l’OIM, specie ora che l’Etiopia è già in una fase economica molto critica anche a causa della guerra nel Tigray, dove milioni di persone necessitano di assistenza umanitaria urgente.
Hana Yeshingus, rappresentante del ministero etiopico per Donne e Infanzia, ha spiegato ai reporter che il suo governo ha deciso di intervenire per alleviare la sofferenza dei propri concittadini nel regno wahabita.
Eppure, appena insediato come primo ministro, Abiy Ahmed, Nobel per la Pace 2019, aveva annunciato di aver trovato un accordo con gli Emirati Arabi Uniti che sarebbero pronti ad accogliere 50.000 lavoratori etiopi già a breve, mentre sarebbero in atto trattative per il trasferimento di altre 200.000 persone nei prossimi anni. Il governo di Addis Ababa aveva aggiunto che dialoghi in tal senso erano in atto anche con il Giappone e alcuni Paesi dell’UE. Non si è più parlato di questi accordi, ne sono stati presi altri, come l’acquisto di droni, forniti anche dagli Emirati Arabi Uniti, per bombardare il Tigray, dove dai primi di novembre 2020 si sta consumando un terribile conflitto tra il governo centrale e i “ribelli” del TPLF (Fronte Popolare di Liberazione del Tigray).
In un suo rapporto del 5 gennaio, Human Right Watches aveva denunciato il governo etiopico dell’arresto di migliaia di migranti di etnia tigrina provenienti dall’Arabia Saudita. Allora la ONG aveva chiesto a Riyad di cessare le deportazioni verso Addis Ababa.
In base alle stime di OIM, attualmente ci sono ancora 750 mila etiopi in Arabia Saudita, almeno 450 mila sarebbero entrati nel Paese in modo illegale, che ora necessitano di aiuto per poter rientrare in patria. Negli ultimi quattro anni ne sono già stati espulsi 352 mila.
La maggior parte dei migranti etiopici ha affrontato un viaggio pericoloso per poter raggiungere l’Arabia Saudita. Molti si sono imbarcati sulla costa meridionali di Gibuti, e, prima di raggiungere Obock, da dove partono molte imbarcazioni di trafficanti alla volta dello Yemen, devono attraversare lande deserte e impervie, caldissime e non di rado vengono rinvenuti resti umani nella regione del lago Assal, nel triangolo di Afar, che si trova a 155 metri sotto il livello del mare e rappresenta il punto più basso del continente africano. Muoiono di stenti, fame e sete. Altri annegano durante la traversata. Una volta giunti in Yemen, nazione in guerra dal 2015, rischiano di essere fermati dalle autorità yemenite durante il loro passaggio nel Paese e vengono rinchiusi in centri di detenzione più che improvvisati.
Solo i più fortunati riescono a proseguire il viaggio verso gli Emirati Arabi Uniti o l’Arabia Saudita, dove sono destinati a svolgere i lavori più umili, maltrattati, sfruttati; le donne sono trattate come schiave dai padroni, che non di rado abusano anche sessualmente delle ragazze, prima di rispedirle a casa, in quanto illegali.
Le giovani donne arrivate ora a Addis Abeba hanno passato mesi in carcere con i loro figli, prima di essere rispediti al mittente come un pacco postale. Hanno sofferto le pene dell’inferno durante tutto il soggiorno nel regno. Prima come lavoratrici senza diritti, poi in carcere, dove persino il cibo rappresentava un lusso.
“Ci davano un pochino di pane e una pentolone di riso. Doveva bastare per tutte, vivevamo in spazi ristrettissimi, anche in 400 in uno stanzone, e, in tutti questi mesi non abbiamo mai visto la luce del sole. I nostri fratelli, ancora rinchiusi nelle putride galere saudite maschili, sono in condizioni terribili, peggiori delle nostre. Non si può raccontare come vengono trattati”, ha raccontato una giovane donna appena sbarcata a Addis Ababa.
Cornelia I. Toelgyes
corneliacit@hotmail.it
@cotoelgyes
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