Addis Abeba, 10 febbraio 2022
Summit dell’Unione africana la scorsa settimana ad Addis Abeba. Il presidente di turno dell’assemblea, il congolese Felix Tshisekedi, che è stato a capo dell’organizzazione per un anno, ha passato lo scettro al suo successore, Macky Sall, leader del Senegal, che resterà in carica anche lui per dodici mesi. Sall ha posto alcuni obbiettivi ambiziosi: rafforzare la resilienza nutrizionale e la sicurezza alimentare, implementare i sistemi agroalimentari, sanitari e la protezione sociale, per accelerare lo sviluppo umano, sociale ed economico. Tutti argomenti discussi durante il vertice.
I delegati hanno fatto finta di non sapere che in Tigray si combatte una guerra all’ultimo sangue. L’argomento, infatti, non è stato affrontato e tanto meno dibattuto con una motivazione risibile: non era all’ordine del giorno. Verrebbe da chiedersi a cosa servono questi incontri, giacché gli argomenti scottanti non vengono mai discussi, se non superficialmente come si fa quando si vuole curare un ammalato terminale con un buffetto sulla guancia.
Certo, la guerra in Tigray è a casa di chi ha ospitato il summit, e cioè in governo etiopico, ma anche questo particolare svela gli intrecci inconfessabili tra la classi dirigenti africane. Interessi conditi da minacce palesi e velate.
L’UA conta 55 Stati membri, cioè tutti quelli del continente riconosciuti internazionalmente e la Repubblica Araba Saharawi Democratica.
Il presidente della Commissione dell’Unione africana, Moussa Faki Mahamat, ha aperto l’assemblea e nel suo discorso ha dato un’ampia panoramica dello stato dell’organizzazione. Ha parlato di questioni relative alla salute, alla governance, alla pace e alla sicurezza, nonché delle azioni intraprese dall’UA e dai suoi Stati membri per affrontare questioni regionali.
Antonio Guterres, segretario generale delle Nazioni Unite, ha inviato un videomessaggio, nel quale ha sottolineato, tra l’altro, che attualmente la collaborazione tra l’Organizzazione e l’Unione Africana è più forte che mai. Ha puntualizzato che ora bisogna impegnarsi soprattutto per la produzione e la copertura dei vaccini, puntare sulla ripresa economica, e, punto fondamentale, lavorare per la pace in tutto il continente.
Nel corso dell’assemblea generale sono intervenuti diversi leader africani, tra questi anche Abiy Ahmed, primo ministro etiopico. Dopo un breve accenno sui problemi che sta attraversando il suo Paese, ha sottolineato che si tratta di questioni di ordine pubblico e ha evidenziato che l’interferenza di attori esterni rendono ancora più difficile trovare una soluzione.
Ringraziando le autorità presenti per il sostegno, la comprensione e la solidarietà, ha informato l’assemblea che il suo governo ha già lanciato una piattaforma di dialogo nazionale.
Finora non è ben chiaro chi parteciperà alla piattaforma. A fine dicembre il parlamento etiopico ha dato il via alla formazione di una commissione volta ad aprire un dialogo di “consensus nazionale” e, qualche giorno fa è stata pubblicata una lista con 42 nominativi.
Gli 11 membri che parteciperanno infine alla conferenza, sarà resa nota nei prossimi giorni. Tuttavia rischia di perdere credibilità per l’assenza annunciata dei massimi leader dell’opposizione.
Alcuni intellettuali e docenti universitari ritengono che si tratterà più che altro di un “monologo nazionale”, perché i maggiori sostenitori di un’Etiopia federale non presenzieranno. Abiy mira a centralizzare il potere. Infatti teme spinte centrifughe con richieste di autonomia, o addirittura di indipendenza giacché qualcuno potrebbe chiedere l’applicazione dell’articolo 39 della Costituzione, che prevede, seppure con una procedura complessa, il diritto alla secessione.
E mentre si ignora il problema della guerra nel Tigray, nell’Etiopia settentrionale la situazione umanitaria peggiora di minuto in minuto. Gran parte delle organizzazione di aiuto hanno sospeso o ridotto al minimo la loro attività nella regione. Lo ha confermato OCHA (l’Ufficio delle Nazioni Unite per gli affari umanitari), che ha espresso anche grande preoccupazione per la mancanza di generi alimentari e di beni di prima necessità in tutta la regione.
In base alle informazioni di World Food Programme (WFP), sono oltre 9 milioni le persone in stato di grave necessità nel Tigray e nelle altre due regioni (Amhara e Afar), coinvolte nel sanguinoso e crudele conflitto.
E un dottore che lavora in un ospedale nel nord dell’Etiopia ha detto che persino il personale medico e paramedico è costretto a mendicare cibo non ricevendo lo stipendio da oltre 8 mesi. Lo si evince anche dall’ultimo rapporto dell’ONU, dove è precisato che nella regione sono ormai 2,2 milioni di residenti in stato di “estrema mancanza di cibo”. Metà delle donne incinte o in fase di allattamento soffrono di malnutrizione.
I prezzi sono alle stelle, impossibile acquistare i beni di prima necessità. Manca il denaro contante, le comunicazioni e internet sono interrotti, difficile, se non impossibile per i giornalisti stranieri entrare nel Tigray per documentare la reale situazione in modo indipendente.
In base al rapporto stilato da Hagos Godfey, capo dell’Ufficio della Sanità del Tigray, tra luglio e ottobre 2021, sono morte oltre 5.000 persone per patologie varie, compresi 1.500 deceduti per malnutrizione grave, tra questi anche 350 bambini piccoli. Questi decessi non comprendono le vittime causate dai combattimenti.
Un piccolo sollievo è arrivato dal Comitato Internazionale della Croce Rossa che ha potuto finalmente consegnare medicinali e forniture mediche a Makallé, il capoluogo del Tigray.
Ieri pomeriggio, in partenza dall’aeroporto internazionale di Addis Abeba, Amina Mohammed, vice segretario generale delle Nazioni Unite, ha detto che ha cercato di incoraggiare il governo federale a tenere colloqui di pace con tutte le parti interessate per porre fine alle atrocità.
L’alto funzionario dell’ONU ha partecipato anche all’assemblea generale dell’UA e ha visitato il Tigray, l’Amhara e l’Afar, le tre regioni coinvolte nel conflitto in atto da oltre 15 mesi.
Intanto alla fine di gennaio l’Italia ha sospeso l’accordo militare con l’Etiopia e le forniture d’armi. Il trattato di cooperazione militare era stato siglato nel 2019 con l’allora ministro della Difesa, Elisabetta Trenta. La Francia ha bloccato gli aiuti militari già nell’agosto dello scorso anno e anche Washington, non solo ha cancellato accordi economici e militari, ma ha pure imposto importanti sanzioni.
Emirati Arabi Uniti, Cina e Turchia, invece, continuano a fornire materiale bellico allo Stato del Corno d’Africa in piena guerra civile. E proprio alla fine del mese scorso Abiy si è recato a Abu Dhabi, dove ha incontrato il principe ereditario e ministro della Difesa di Abu Dhabi, Mohammed bin Zayed Al Nahyan, per rafforzare l’amicizia tra i due Paesi.
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