Speciale Per Africa ExPress
Massimo A. Alberizzi
12 gennaio 2022
Qualche mese fa sembrava che il Sudan ce la potesse fare, che le porte della democrazia di sarebbero finalmente aperte dopo che il dittatore Omar Al-Bashir le aveva brutalmente chiuse il 30 giugno 1989 con un brusco colpo di Stato.
Gli anni della dittatura sono stati assai duri per la popolazione del Paese che vantava un numero di intellettuali di gran lunga superiore a quello di numerosi vicini africani. E’ vero che subito dopo la seconda guerra mondiale tutto il continente è stato scosso da fermenti democratici e anticolonialisti, e in Sudan la presenza di officine per la manutenzione del materiare ferroviario ha contribuito alla crescita e all’espansione di una forte classe operaia.
Il primo sindacato dei lavoratori nacque infatti, nel 1946, ad Atbara, città a nord di Khartoum e snodo di smistamento dei treni, tra i lavoratori delle ferrovie, impiegati tra l’altro nelle officine per la manutenzione del materiale rotabile e delle strade ferrate, e quelli in forza nel più grande cementificio africano del tempo (Atbara Cement Corporation). Ad Atbara fu fondato il partito comunista più consistente del continente (a parte il Sudafrica), quello sudanese.
Una crescita laica della popolazione che non piaceva alle élite conservatrice e islamica dei leader civili e religiosi. E neppure alla GranBretagna ex potenza coloniale. Infatti il dittatore Jaafar Nimeiry, che dopo un colpo di Stato ha governato il Paese dal 1969 al 1985, pur nascendo politicamente laico (inizialmente aveva preso il potere addirittura con l’appoggio dei comunisti), aveva dovuto piegarsi alle pretese degli islamici, introducendo riforme clericali.
Quelle profonde fratture che il Sudan si porta dietro dall’indipendenza, ottenuta nel 1956, si riflettono nella situazione odierna dove dopo la defenestrazione di Omar Al Bashir, l’11 aprile 2019, i militari e i civili si affrontano nelle piazze.
Ma non sono due schieramenti omogenei. I militari sono guidati dal generale Abdel Fattah Abdelrahman Al-Bourhan, l’uomo che ha cacciato Bashir mettendolo agli arresti. Dietro di lui c’è Mohamed Hamdan Dagalo (detto ‘Hemetti’) il capo degli ex janjaweed, i tagligole che a suo tempo mettevano a ferro e fuoco il Darfur bruciando i villaggi. Ora si chiamano più elegantemente Rapid Support Forces e sono i sostenitori dell’ex dittatore Bashir e degli islamici più conservatori.
Hemetti è il vero uomo forte in questo scontro e purtroppo negli anni scorsi ha avuto il supporto dell’Unione Europea ,che sperava, finanziando il suo apparato militare schierato ai confini con la Libia, di bloccare l’esodo dei migranti in viaggio verso il Mediterraneo. Hemetti (del sottogruppo tribale Maharaiya) è assieme a Mussa Hilal (del clan Mahamid il leader più importante della grande costellazione araba dei Rezegat .
Un gruppo di militari comunque non sarebbe poi contrario ad appoggiare un governo totalmente civile. Dall’altra parte c’è la piazza con la società civile, i sindacati, le organizzazioni professionali e i difensori dei diritti umani, divisi essenzialmente in due tronconi: i radicali, feroci oppositori di qualunque accordo con i militari, i moderati che invece sarebbero disposti a un periodo transitorio che veda al governo militari e civili assieme.
La situazione ora è in bilico in un equilibrio instabile che può precipitare da una parte o dall’altra da un momento all’altro. I prossimi giorni potrebbero essere decisivi per capire dove andrà a finire il Sudan. “Ogni mattina – ha commentato lo striger di Africa ExPress al telefono – ci svegliamo e guardiamo in strada per vedere se i carri armati sono usciti dalle caserme”.
Massimo A. Alberizzi
@malberizzi
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