Cornelia I. Toelgyes
12 gennaio 2021
“Ciò che proponiamo, sono consultazioni, non negoziati. Quelli possono seguire in un secondo tempo”, ha detto l’emissario delle Nazioni Unite, Volker Perthes, lunedì durante una conferenza stampa a Khartoum, la capitale del Sudan.
Il ruolo dell’ONU si limita a consultazioni dirette e indirette con gli attori chiave, come militari, partiti politici, gruppi armati, società civile. L’iniziativa del Palazzo di Vetro non è stata inizialmente accolta con grande entusiasmo a Khartoum, ma nel pomeriggio il Consiglio Sovrano ha fatto sapere di apprezzare gli sforzi messi in campo volti a facilitare il dialogo tra le parti. La sua portavoce, Salma Abdul-Jabbar Al-Mubarak, ha chiesto di coinvolgere anche l’Unione Africana e ha aggiunto infine che presto sarà formato un nuovo governo di transizione per colmare il vuoto esecutivo lasciato dopo le dimissioni dell’ex premier Abdallah Hamdok. Finora non è trapelata nessuna indiscrezione sul nome di un eventuale primo ministro.
I funzionari dell’ONU hanno chiesto ai vari gruppi di presentare le proprie opinioni e richieste sui vari punti – di accordo e disaccordo – che saranno poi materia di discussione alle fine dei colloqui. Perthes ha sottolineato che solamente l’ex raggruppamento politico di al-Bashir e il Partito Comunista Sudanese hanno rifiutato la loro partecipazione all’iniziativa dell’Organizzazione.
L’emissario dell’ONU è atteso mercoledì a New York, dove il Consiglio di Sicurezza discuterà la crisi sudanese dopo il colpo di Stato del 25 ottobre.
L’Associazione dei Professionisti Sudanesi (SPA) ha respinto l’ipotesi di trattare con i militari finché resteranno al loro posto, fino a quando cioè le manifestazioni vengono represse nel sangue.
Anche per oggi e domani sono previste nuove manifestazioni sia nella capitale che a Omdurman, città gemella di Khartoum, situata sulla sponda occidentale del Nilo. Alcune strade e ponti sono stati chiusi e sul posto è presente un massiccio spiegamento delle forze dell’ordine e di sicurezza.
Durante la marcia di protesta del 30 dicembre 2021, le forze di sicurezza hanno forzato le finestre del Teaching Hospital di Khartoum lanciando gas lacrimogeni in una sala d’emergenza dove si trovavano diversi manifestanti feriti.
Elfatih Abdallah, medico e direttore del nosocomio ha riferito scandalizzato ai reporter di Reuters: “Il nostro ospedale è stato attaccato tre volte con i gas lacrimogeni in questi mesi. E’ inaccettabile, disumano e immorale”.
Attacchi alle strutture mediche sono stati perpetrati anche durante l’era del dittatore Omar al-Bashir, defenestrato con un colpo di Stato militare nell’aprile 2019 ed ora, dopo il putsch del 25 ottobre 2021, tali aggressioni sono nuovamente all’ordine del giorno.
Centinaia di persone sono state ferite, almeno 63 sono morte durante le proteste che si sono susseguite in questi mesi, cifre confermate dal Comitato Centrale dei Medici Sudanesi (CCSD).
Le ultime due persone sono morte nelle dimostrazioni di domenica scorsa. Entrambe sono state colpite violentemente con bombe di gas lacrimogeno. Malgrado la dura oppressione, i sudanesi non esitano a scendere nelle piazze e nelle strade, chiedono con fermezza un governo civile che possa traghettare il Paese verso libere elezioni democratiche.
Con l’ultimo golpe del 25 ottobre scorso, il presidente del Sudan, Abdel Fattah al-Burhan, aveva dichiarato lo stato di emergenza su tutto il territorio nazionale e lo scioglimento del governo di transizione e dello stesso Consiglio e arrestato l’allora primo ministro Abdallah Hamdok e altri personaggi di spicco.
Hamdok, anche dietro pressione della comunità internazionale, era stato reintegrato nelle sue funzioni il 21 novembre 2021, dopo aver siglato un accordo con al-Burhan. Il trattato tra le parti non è stato accettato dalla società civile, in quanto lasciava il potere saldamente in mano ai militari.
L’ex premier, apostrofato come “traditore” durante le manifestazioni che si sono susseguite dopo la firma dell’accordo con al-Burhan, non è riuscito a formare un nuovo governo e pertanto ha rassegnato le sue dimissioni il 2 gennaio.
Secondo alcuni analisti e diplomatici, la formazione di un nuovo governo di transizione non può essere rinviato, il Paese ha bisogno di maggiore stabilità, anche per far fronte alla già fragile situazione economica che da anni affligge il Sudan.
Cornelia I. Toelgyes
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