Cornelia I. Toelgyes
19 dicembre 2021
Oggi a Khartum e in altre città sudanesi decine di migliaia persone sono scese nelle strade per chiedere nuovamente la fine del regime militare. L’esercito, con il colpo di Stato del 25 ottobre scorso, ha preso il potere, scardinando il governo misto civile/militare varato dopo le proteste e manifestazioni di messa di tre anni fa.
A fine novembre, sotto pressione della comunità internazionale, il Consiglio Sovrano, capeggiato da Abdel Fattah al-Burhan, aveva reintegrato il primo ministro Abdallah Hamdok che era stato messo agli arresti domiciliari.
Oggi cadeva il terzo anniversario della rivoluzione sudanese e la gente si è scatenata. La rivolta era cominciata il 19 dicembre 2018 e da Khartoum si era diffusa in tutto il Paese. Le proteste si erano protratte per mesi finché, nell’aprile 2019, il dittatore Omar al-Bashir era stato costretto dai militari e dalla popolazione in piazza ad andarsene.
E allora come oggi, sono scese nelle strade decine di migliaia persone, chiedendo la fine del regime militare.
Con il trattato di 14 punti, Burhan e Hamdok si sono impegnati formalmente a riprendere la via della transizione democratica, di tornare alla condivisione del potere civile-militare secondo l’accordo del 2019. Hamdok ha prospettato la formazione di un gabinetto di tecnocrati, d’altronde anche il precedente governo lo era. Lui stesso non è un politico: è un economista, un ex funzionario della Commissione Economica per l’Africa dell’ONU.
All’indomani della firma dell’accordo, si sono dimessi 12 ministri e la direttrice dell’università di Khartoum, Fadwa Abdel Rahman.
Nonostante il reinsediamento di Hamdok le proteste si sono susseguite. La popolazione è stanca dei regimi militari ma ritiene che approvare l’accordo significa tollerare e accettare che i fautori del putsch restino nel Consiglio sovrano e che quindi possano esercitare un potere eccessivo.
Hamdok, da parte sua, in un comunicato di sabato sera ha replicato: “La rivoluzione del Sudan ha subito una grande battuta d’arresto e l’intransigenza politica di tutte le parti in causa minaccia l’unità e la stabilità del Paese”.
A Khartoum, i manifestanti si sono radunati dapprima a meno di un chilometro dal palazzo presidenziale (l’ex quartiere generale di al-Bashir), cantando: “Il popolo è più forte, tornare indietro è impossibile”, altri, invece, correvano nelle strade laterali per schivare i lacrimogeni, ma, secondo alcuni testimoni, la polizia avrebbe sparato in aria anche pallottole vere per disperdere la folla.
Il corteo dei dimostranti si è poi diretto verso il palazzo presidenziale. Né i lacrimogeni e tantomeno le granate stordenti sono riusciti a bloccare la folla, che, per la prima volta, dopo ben 9 marce di protesta organizzate dopo il colpo di Stato del 25 ottobre, sono riusciti a raggiungere i cancelli della sede della presidenza.
Non è ancora chiaro chi abbia usato il gas lacrimogeni. Se sia stata un’iniziativa della polizia, dei militari o dei paramilitari di Rapid Support Forces, gli ex janjaweed che si sono riciclati con un diverso nome. Il loro capo è Mohamed Hamdan Dagalo che, cosa inquietante, è vice-presidente del Consiglio sovrano.
Cornelia I. Toelgyes
corneliacit@hotmail.it
@cotoelgyes
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