Massimo A. Alberizzi
Nairobi, 15 novembre 2021
La giustizia è lenta ma qualche volta arriva in tempo con la sia mannaia. E’ accaduto in Italia nel caso di Stefano Cucchi, dove depistaggi e comportamenti omertosi hanno rallentato la ricerca della verità e la condanna dei colpevoli. Ed è accaduta la stessa cosa in Kenya. Un caso che presenta impressionanti analogie con quello italiano: omertà, silenzi, depistaggi e false testimonianze.
Ma anche l’Alta Corte del Kenya alla fine ha messo in luce la verità e ha condannato a varie pene detentive quattro agenti che nel 2012 hanno ucciso Alexander Monson, il figlio di un aristocratico britannico trovato morto in una cella della polizia a Diani, città turistica a pochi chilometri a sud di Mombasa, sulla costa dell’Oceano Indiano.
Non è solo la polizia americana ad essere accusata di brutalità e uso eccessivo della forza, anche in Kenya la morte di Monson ha aperto un dibattito sulla impunità di cui godono le forze dell’ordine che spesso abusano dei loro poteri per taglieggiare la gente.
Non è raro, per esempio, che gli agenti addetti al controllo del traffico fermino auto e camion contestando violazioni inesistenti perché i conducenti paghino una piccola tangente ed evitino così di essere portati alla stazione di polizia con conseguente perdita di moltissimo tempo.
Il giudice Eric Ogola ha avuto un gran coraggio a emettere la sentenza di condanna perché l’opinione pubblica keniota si divisa tra colpevolisti e innocentisti.
Naftali Chege, Charles Wangombe Munyiri, Baraka Buluma e John Pamba, i quattro poliziotti condannati hanno chinato la testa dopo l’annuncio del verdetto; uno di loro si è messo a piangere in silenzio.
Chege è stato condannato a 15 anni di prigione, cinque dei quali sospesi. Munyiri è stato condannato a 12 anni, sei dei quali sospesi. A Buluma sono stati dati nove anni, cinque dei quali sospesi, e Pamba è stato condannato a 12 anni, sei dei quali sospesi.
Hilary Monson, la madre del giovane ucciso, cercando di trattenere le lacrime alla lettura della sentenza si è rivolta ai giornalisti: “La condanna invia un chiaro messaggio alle forze di polizia keniote: di avere rispetto per la vita umana. Ho aspettato la sentenza dieci anni. Le pene cui sono condannati gli imputati non sono sufficienti a consolare per una madre che ha perso il suo bambino in un modo così brutale”.
Alexander Monson aveva 28 anni quando è stato trovato morto dopo essere stato arrestato per aver fumato cannabis, secondo la polizia, durante una festa di giovani amici: “La droga è stata messa in tasca al ragazzo dopo la sua morte come copertura”, ha spiegato il giudice Ogola, aggiungendo che il giovane britannico era in perfetta salute prima di entrare nella stazione di polizia dove è stato “brutalmente torturato”.
“La morte del giovane è a stata causata da un’omissione illegale. Chi ha assistito al pestaggio non ha cercato le cure mediche in tempo utile”, ha commentato il magistrato.
Monson era il figlio di Nicholas, il 12° Barone Monson, ed erede di una tenuta di famiglia nel Lincolnshire, nell’Inghilterra orientale. Anche il padre era in aula e annuiva lentamente mentre venivano annunciati i verdetti. “Le condanne avrebbero potuto essere più pesanti, ma credo proprio che i colpevoli dovranno affrontare anche qualche punizione in prigione”, ha spiegato.
Due rapporti dei patologi del governo, visti dai giornalisti della Reuters all’epoca, conclusero che Monson era morto per un forte colpo alla testa. Un’inchiesta poi ha mostrato che ci sono stati vari tentativi di coprire l’incidente con depistaggi e minacce contro i testimoni.
La polizia keniota è oggetto di frequenti accuse di brutalità e uccisioni extragiudiziali da parte di civili e gruppi per i diritti umani, ma gli agenti sono raramente accusati e quasi mai condannati.
L’Independent Policing Oversight Authority è stata istituita nel 2011 per indagare sulla cattiva condotta della polizia e ha ricevuto milioni di dollari di finanziamenti stranieri. Dalla sua creazione l’agenzia ha ricevuto migliaia di denunce ma solo in 13 casi c’è stata la condanna degli agenti.
Massimo A. Alberizzi
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