Costantino Muscau
6 settembre 2021
Il motto di Anrunè Weiers è: non sei disabile a causa della tua disabilità, ma sei capace grazie alle tue capacità.
Anrunè Weyers, 28 anni, sudafricana, insegnante, ha una menomazione congenita al braccio sinistro, ma le gambe sono eccezionali. E alla terza Olimpiade, anzi Paralimpiade, pur reduce da Covid 19 ha fatto valere tutta la sua capacità nei 400 metri: ha messo al collo la medaglia d’oro, dopo quella di bronzo (Londra 2012) e quella di argento (Rio 2016). Nella sua lunga carriera, cominciata a 11 anni di età, a parte questi tre successi olimpici, ha conquistato altre 10 medaglie in diversi Campionati del mondo, di cui 2 auree. “Ora posso ritirarmi e cedere il passo alle nuove generazioni – ha commentato dopo il trionfo giapponese, dedicato a Dio – Il Signore era con me quando ho preso il Covid-19, pensavo che il mio sogno di competere ai Giochi fosse finito. E’ venuto in mio soccorso…”.
Il motto di Lucy Ejike è: disciplina e duro lavoro. Lucy Ejike, 43 anni, nigeriana, amministratrice sportiva, madre di 2 figli, ha avuto la poliomielite a 1 anno di età ed è rimasta paraplegica. In carrozzella a vita. Nel 2000 è andata in palestra e ha cominciato a sollevare i pesi. Non si è più fermata. Tanto che subito si è presentata alle Paralimpiadi di Sidney e ha preso l’argento. Quattro anni dopo (2004, Atene) si è aggiudicata l’oro; nel 2008 a Pechino ha concesso il bis e nel 2016 a Rio il tris. Nel frattempo, a Londra (2012), era salita ancora sul secondo podio. Pochi giorni fa si è dovuta “accontentare” del bronzo ai Giochi paralimpici di Tokio. Sei olimpiadi e una collana scintillante di medaglie. <Lucy Ejike è una leggenda del sollevamento pesi>, la ha definita il sito del Comitato Internazionale Paralimpico.
Anrunè e Lucy sono le stelle dello sport africano paralimpico che hanno brillato più di altre nelle Paralimpiadi svoltesi a Tokio dal 24 agosto a domenica 5 settembre. Non le uniche, certo. Ci sono anche altre icone. La tunisina Raouaa Tlili, 31 anni, ad esempio, ha preso l’oro nel lancio del disco e del peso come nel 2016 a Rio. E ha fissato il record del mondo in entrambe le specialità. Raouaa è un’atleta tascabile, si potrebbe dire, (133 centimetri) per un fatto congenito, ma di un coraggio e una forza senza pari anche nella vita civile. Prima di salire sull’aereo per Tokio non ha esitato a scagliare accuse molto in alto: contro le autorità del suo Paese per aver lesinato gli aiuti agli atleti tunisini, soprattutto quelli con handicap.
A sua volta, la delegazione algerina potrebbe essere soddisfatta delle sue 4 medaglie più pregiate guadagnate da Athmani Skander Jamil, 29 anni, (sui 400 metri) e da tre donne: Cherine Abdelaoui, 23 anni, nel judo (52 Kg), Safia Djelal, 38 anni, e Boudjadar Ashmane, 41 anni, (entrambe nel lancio del peso, in categoria differenti)
Altrettanti ori hanno guadagnato Marocco, Nigeria e Sudafrica. Quest’ultimo Paese, però, è ben lontano dai trionfi delle 21 medaglie d’oro di Pechino 2008. Un bilancio che allora la proiettò fra le prime sei potenze sportive mondiali. Purtroppo il loro splendore non è bastato a illuminare la deludente prestazione complessiva degli atleti e atlete del continente nero in questa 16a edizione della più importante manifestazione sportiva per atleti con disabilità.
Nel 2016, a Rio de Janeiro, l’Africa aveva ottenuto 99 medaglie, di cui 36 d’oro. La Nigeria, la Tunisia, il Sud Africa, l’Algeria e l’Egitto avevano fatto man bassa con 76 prestigiosi riconoscimenti. Questa volta l’Africa porta a casa 63 medaglie, appena 21 d’oro. Peccato, soprattutto, per l’Etiopia. E non tanto per l’unico oro: primo posto conquistato dalla 21enne Menigstu Tigist Gezaghan nei 1500 metri. Quanto perché gli atleti di Addis Abeba avrebbero voluto onorare più degnamente il primo atleta paralimpico: Abebe Bikila, il trionfatore etiope scalzo nel 1960 alla maratona di Roma (e poi di Tokio). Vittima, nel 1969, di un terribile incidente automobilistico che gli frantumò la sesta e la settima vertebra, fu costretto a vivere su una sedia a rotelle. Per questa ragione gareggiò nel tiro con l’arco (appreso in ospedale) ai Giochi Paralimpici disputati ad Heildelberg, in Germania, nel 1972.
Al di là dei risultati sotto le aspettative (la pandemia ha avuto una parte notevole), per tutti i partecipanti valgono le parole rilasciate da Jean-Marie Nsengiyuva, coach de l’équipe ruandese di pallavolo, a RFI.com: “Avere un figlio handicappato non deve essere una fatalità. Bisogna trasmettere questo messaggio. Attraverso lo sport si deve cercare di aiutare le persone disabili a integrarsi nella società”.
L’appuntamento ora è per il 2024, a Parigi.
Costantino Muscau
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