Enzo Polverigiani
4 settembre 2021
La coalizione Nato a guida americana ha cercato ufficialmente di esportare in Afghanistan la democrazia occidentale e si è cacciata in un nido di vespe. Vere intenzioni a parte, questi sono i fatti. A pochi giorni dalla catastrofica ritirata da Kabul, con la foto dell’ultimo generale Usa che se ne va come l’ultimo sovietico trent’anni fa, con la promessa di vendetta di Joe Biden, con l’ipocrita solidarietà dell’UE verso i profughi, con la retorica e l’incompetenza dei politici strappati alle spiagge, l’attenzione sfuma verso le imminenti elezioni e il no vax, mentre l’Afghanistan torna al suo posto, qualche titolo nelle pagine interne.
Comunque, the show goes on, la farsa continua, sperando che non precipiti di nuovo in una catena di tragedie. La Storia purtroppo insegna che il nemico è più vulnerabile quando si ritira, e secondo gli analisti la guerra – unita a una inarrestabile catastrofe umanitaria – potrebbe andare avanti sottotraccia, con strumenti diversi ma ugualmente letali.
Da un lato le uccisioni tecnologiche e “mirate” a distanza, dall’altro quelle più feroci e quindi più rivendibili in tv: decapitazioni, kamikaze, autobomba: attentati difficili da prevenire per l’estrema frammentazione del fronte terroristico.
L’indecifrabile guerriglia afghana – spiegava un colonnello della Brigata Aosta sul C-130 in volo verso Herat – non l’hanno combattuta solo i talebani, ma anche jihadisti di al-Qaeda, capiclan in ansia di prestigio, trafficanti di oppio che versano parte degli utili alla causa, trafficanti di armi che vanificano ogni speranza di pace, trafficanti di ostaggi che se li rivendono tra loro o minacciano di decapitarli in video, vecchi mujaheddin e signori della guerra padroni delle montagne e combattenti contro ogni nemico, talebani compresi. Schegge impazzite in uno scenario infernale.
Così, mentre politici e commentatori, ignari di tutto, pontificavano in tv, nella base di Herat affidata alla missione italiana esperti ufficiali e graduati – gente pratica e consapevole dei rischi di una guerra non dichiarata – insegnavano “con gli stivali sul terreno” tutto quel che c’era da sapere ai soldati appena arrivati dall’Italia: a cavarsela in caso di attentato, d’imboscata, di sequestro, di abbattimento di elicottero, anche di semplice incidente stradale. Sopravvivere, evadere, resistere, nascondersi erano le regole da tenere bene in mente.
Gli artificieri del IV Genio guastatori, agli ordini del colonnello N.P., facevano il mestiere più pericoloso del mondo, preparandosi a riconoscere e difendersi dalla sigla più temuta sullo scenario afghano: Ied, Improvised explosive device.
Bombe improvvisate, artigianali, responsabili del maggior numero di vittime tra le forze dell’Isaf. La morte-fai-da-te contro le tecnologie di Mazinga, una insidiosa partita a scacchi tra passato e futuro che il colonnello descriveva con rabbia: “Dieci dollari di spesa, e si fanno danni enormi e decine di morti. E’ una minaccia subdola, e per contrastarla abbiamo creato una specie di corso di laurea. La ricerca e la neutralizzazione degli Ied è compito della Task force formata da siciliani e sardi”.
“Sono specialisti che studiano le mappe – aggiungeva – fanno intelligence ed elaborano statistiche sui criminali che interrano le mine ai lati delle strade, setacciando le zone più a rischio, precedendo i convogli e aguzzando la vista, insegnando il mestiere anche ai soldati afghani. Ma i terroristi imparano, e in fretta: all’inizio attaccavano i nostri blindati, i Lince, con cinque chili di esplosivo, e più le blindature venivano rinforzate, più aumentava il carico di esplosivo, arrivato anche a 100-200 chili”.
Il maresciallo G.C., giovane, bruno, occhialuto, spiegava tra l’ironico e il professionale, come un piazzista di aspirapolvere. “Gli Ied sono strumenti di guerriglia. La loro natura non convenzionale rende difficile prevederne la potenza, perché di varie dimensioni e materiali: solfiti, nitrato d’ammonio, fertilizzanti pressati in una pentola. Non tutti i talebani sono ignoranti e conoscono solo le dottrine coraniche. Alcuni sono ugualmente abili con kalashnikov e computer. Uno Ied è composto di contenitori, esplosivo, batteria. Le cariche sono militari, commerciali o artigianali. Il dosaggio è rapportato all’uso che se ne vuol fare. Per rendere più micidiale l’esplosione, spesso l’ordigno viene riempito con rottami metallici. I contenitori possono essere Uxo, le bombe sovietiche inesplose, bombole di gas, pentole a pressione, a volte carogne di animali, perfino resti umani. L’abilità degli attentatori dipende anche dal camuffamento di simili ordigni. Ne abbiamo trovati perfino nella spazzatura. Difficilissimo individuare quelli interrati ai lati o sotto le strade, ancor più in ambienti urbani. Le più letali sono le mine a ragno, 4-5 collegate tra loro. Come si scoprono? Addestramento, fiuto e anche il famoso fattore C, che, usando un eufemismo, vuol dire fortuna”.
“I detonatori – continuava il maresciallo – sono sistemi radio attivati a distanza, telecomandi per giocattoli, telefonini, cordless, lamine a contatto, penne biro, marchingegni a pressione. Perfino orologini al quarzo che costano non più di 7-8 dollari. Occorre esperienza per scoprirli, studio del terreno e ricerca dei segnali: impronte, terra o sabbia di diverso colore, materiale di riporto ammucchiato e via così. In città prevale la tecnica dell’autobomba, che fa più morti e moltiplica l’effetto-terrore. Anche in questo caso ci sono indizi da interpretare: veicoli che rallentano, traffico irregolare, vetri oscurati, un singolo occupante nella vettura, auto sbilanciata, gomme nuove su veicoli vecchi. Le auto da trasformare in bombe sono scelte tra le più comuni in circolazione, come ad esempio le Corolla bianche: ce ne sono migliaia nelle città afghane. Altissimo rischio, poi, per quanto riguarda i kamikaze, i fanatici con cinture esplosive, indotti al sacrificio dall’integralismo religioso o dalle minacce alla famiglia. Quasi impossibile individuarli tra la folla”.
Il maresciallo mostrava due filmati raccapriccianti girati in località dell’Afghanistan. Nel primo si vedeva un autocarro rallentare fino a formare una lunga coda di veicoli, ridotti in briciole da un’improvvisa, terrificante esplosione. Proprio un camion-bomba a Nassiriya, in Iraq, nel novembre 2003, causò la morte di 19 italiani tra militari e civili. Nel secondo filmato una colonna di blindati sfila sulla Ring Road: appena passato l’ultimo, nel centro della strada l’asfalto si gonfiava un’enorme bolla che esplodeva formando un profondo cratere. Come nell’attentato di Capaci.
In una steppa brulla, nell’area di Camp Arena, tra le rovine secolari di un villaggio, la Task force guastatori simulava la ricerca e neutralizzazione di uno Ied. Sminatori e artificieri superesperti e superattrezzati: oltre allo scafandro protettivo indossato dal loro collega americano nella finzione del film “The hurt locker”, impiegavano il curioso robot – anch’esso attore nel film di Kathryn Bigelow – munito di cingoli, di giraffa metallica con pinza e cesoia, e di due telecamere, manovrato da un operatore che lo seguiva sul pc dall’interno di un Buffalo color sabbia, il gigante corazzato americano da un milione di dollari, progettato per resistere agli Ied e alle mine.
I militari setacciavano il terreno, si soffermavano su un rilievo che sembrava uno scavo di talpa. Il robot, dopo aver scoperto Ied e detonatore, sparava un getto d’acqua ad altissima pressione che disarticolava l’ordigno.
La tragedia di Kabul suscita i pensieri peggiori. A meno che i mullah talebani di ritorno non si dimostrino efficienti uomini di governo. Ma il monito di Biden (unito alla montagna di armi abbandonate ai vincitori) non incoraggia troppe speranze. “Terroristi, vi inseguiremo in capo al mondo”. Non sembrano le parole di Bush dopo l’11 settembre?
Enzo Polverigiani
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