Sara Mauri
Lecco, 2 settembre 2021
I giornali si popolano in fretta, subito arriva qualcosa d’altro da scrivere, qualche altra tragedia da raccontare, i riflettori si spengono. Le notizie passano veloci, domani è un altro giorno. Così succederà anche all’Afghanistan. Ce ne dimenticheremo, come si fa con un dramma lontano, come abbiamo fatto in passato. Ma ci sono ancora tante persone che sperano, che non si meritano il silenzio.
Teniamo i riflettori accesi anche dopo, quando la novità sarà scemata, quando nessuno avrà più interesse, quando i talebani avranno preso i mezzi, quando vedremo solo gli uomini. Perché le donne ci saranno sempre, coperte da un velo nero, sbirceranno dalle tende, nascoste, in gabbia, segregate dietro i muri delle case. Mute.
E sarà colpa anche nostra. Una guerra durata 20 anni, un esodo improvviso. C’è ne siamo andati, le abbiamo lasciate lì. Abbiamo chiuso la porta e spento la luce.
Ma le femmine sono creature forti, hai voglia a distruggerle. Hanno radici, partoriscono uomini, si muovono nel dolore e nell’ombra, camminano sulle macerie e ricostruiscono sempre.
La forza dell’essere femmina sconvolge, ogni volta. E stupisce davvero quella forza sovrumana di sopravvivere e di lottare in condizioni che vanno al di là del coraggio. I talebani hanno vietato a molte donne di lavorare, frequentare l’università, di andare a scuola. Ma loro iniziano a uscire, ad alzare la testa e la voce.
Le donne si muovono a Herat. Anche laddove sembra morta la speranza. Ci sono giornaliste da salvare, studentesse, madri di famiglia che non ci stanno. Ed è un carosello di veli di tutti i colori, quello che scorre su Twitter. Le donne sono uscite nelle strade ignorando i pericoli. Oggi la protesta ha contagiato anche Kabul. E ci vuole davvero un grande coraggio a scendere nelle piazze presidiate da talebani armati di mitra!
Protestano. Lo fanno per la loro vita futura, per quello che succederà nel loro Paese dopo che l’Occidente se n’è andato. Per quello che succederà alle loro figlie, sorelle e madri. Le donne afghane chiedono lavoro, istruzione, libertà. Quelli che sarebbero i loro diritti in un paese civile. “È nostro diritto avere istruzione, lavoro e sicurezza”, dicono. “Non abbiamo paura, siamo unite”.
Shaharzad Akbar per rivolgersi alle donne di Herat che protestano contro i talebani le ha chiamate Sheroes. Eroi, femminile, plurale. She. Eroine, ma con un termine più forte, più semplice, più efficace, più vero.
Traduco il suo tweet: “Eroine. Si invitano le donne dei Paesi vicini e del mondo islamico a difendere i diritti umani delle donne afghane. Perché l’indifferenza? Dov’è la solidarietà femminista globale quando le donne afghane ne hanno più bisogno? Perché non assistiamo ogni giorno a proteste a sostegno delle donne afghane?”
Questo si chiede Shaharzad Akbar, dell’Afghanistan Independent Human Rights commission, vedendo l’indifferenza delle donne dei paesi vicini e del mondo. Ed è un appello, un grido all’universo musulmano e non. Perché, sapete, sotto un cielo nero, milioni di stelle brillano ancora.
La battaglia di queste donne è una gran lezione. E allora chiediamo: perché le femministe italiane, quelle che scrivono di donne, che lottano per le donne, non si uniscono tutte in un unico coro? Perché non iniziamo a combattere insieme per le cause giuste, per la vita e e la qualità della vita di altre donne e non solo per noi stesse?
Potremmo stupirci, alla fine, scoprendo un femminismo concreto, vero, generoso, gratuito e senza ipocrisie.
Sara Mauri
saramauri@ymail.com
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