Cornelia I. Toelgyes
1° settembre 2021
Nel suo intervento al Consiglio di Sicurezza di giovedì scorso, Antonio Guterres, segretario generale dell’ONU ha richiamato per l’ennesima volta l’attenzione sul conflitto che si consuma dal 4 novembre 2020 nel Tigray.
Guterres ha chiesto a tutte le parti coinvolte in questa guerra di deporre immediatamente le armi e di iniziare i negoziati per un cessate il fuoco. Ha inoltre invitato le forze straniere di ritirarsi senza indugio dall’Etiopia. Ha infine sottolineato che gli attori del conflitto dovrebbero riconoscere e ammettere che le loro controversie non possono essere risolte militarmente.
“La guerra si è ormai diffusa anche oltre il Tigray e davanti ai nostri occhi si sta consumando una catastrofe umanitaria ”, ha infine aggiunto il capo del Palazzo di Vetro.
Secondo l’ultimo rapporto di OCHA (Ufficio dell’ONU per gli Affari Umanitari), dallo scorso 20 agosto non sono più arrivati aiuti alimentari nel Tigray. I magazzini sono completamente vuoti. Eppure stiamo assistendo a una crisi gravissima, dovuta alla guerra, ma anche a altri fenomeni che hanno contribuito a aggravare i problemi attuali, come la pandemia, l’infestazione di locuste, siccità, inondazioni, scontri etnici.
L’insicurezza alimentare acuta ha colpito 5,5 milioni di persone nel Tigray e nelle regioni vicine (Afar e Amhara), tra questi 353 mila si trovano in situazione catastrofica che corrisponde alla fase 5 in base IPC (Integrated Food Security Phase Classification), il numero più elevato dalla carestia del 2011 in Somalia.
Durante l’assemblea del Consiglio di sicurezza è intervenuto anche l’ambasciatore del Kenya accreditato all’ONU, Martin Kimani, che ha parlato anche a nome di Niger, Tunisia e St. Vincent e Grenadine (nazione nel Sud dei Caraibi). Kimani ha tra l’altro evidenziato l’assoluta necessità di una mediazione, in particolare da parte dell’Unione Africana. Interventi però ripetutamente respinti da Abiy Ahmed, primo ministro etiopico.
Un nuovo allarme è stato lanciato solo pochi giorni fa da parte di Washington e Bruxelles per ulteriori rinforzi arrivati da Asmara, per dare man forte all’esercito di Addis Ababa che recentemente ha dovuto segnare una battuta d’arresto. Le truppe del Tigray hanno infatti riconquistato gran parte della loro regione, spingendosi anche fino a quelle dell’Amhara e dell’Afar. Eppure l’Eritrea solo qualche mese fa aveva assicurato che avrebbe abbandonando il campo.
E il 23 agosto scorso gli USA hanno imposto sanzioni a Filipos Woldeyohhannes, capo di stato maggiore delle forze di difesa eritree (EDF). L’Office of Foreign Assets Control (OFAC) del Tesoro accusa le truppe di Asmara di massacri, saccheggi, stupri, torture, esecuzioni e quant’altro, addebiti ovviamente respinti categoricamente dalla dittatura che governa il Paese rivierasco.
Gli USA hanno messo altresì in guardia l’Etiopia sulla sua futura ammissibilità all’African Growth and Opportunity Act (AGOA), un piano di collaborazione e assistenza economica e commerciale nei confronti dei Paesi dell’Africa sub sahariana.
Dopo le forti tensioni tra Sudan e Etiopia, il governo di Khartoum ha chiesto all’ONU il ritiro dei caschi blu di Addis Ababa nella zona di Abyei. ASFA, Forza di sicurezza ad interim delle Nazioni Unite per Abyei – un’area contesa tra la Repubblica del Sudan e la Repubblica del Sud Sudan – è presente nella zona dal 2011, missione alla quale partecipano solamente militari etiopici.
Intanto Abiy si è recato a Entebbe, Uganda, dove ha incontrato il presidente Yoweri Museveni e a Kigali, per colloqui con il capo di Stato ruandese, Paul Kagame. Sul suo account twitter Museveni ha sottolineato che i dialoghi con Abiy sono stati positivi. “Rafforzeremo la nostra collaborazione bilaterale regionale e internazionale di interesse comune”. Anche lo scambio di idee con Kagame è andato a buon fine. Non si esclude che militari ugandesi e ruandesi possano sostituire quelli etiopici nelle varie missioni di pace. Addis Ababa infatti necessita tutti suoi soldati per continuare la guerra nel Tigray.
Nel frattempo anche il Tigray People’s Liberation Front ha cercato nuove alleanze. Il leader di TPLF, Debretsion Gebremichael ha fatto sapere a metà agosto di aver stretto un accordo con l’Oromo Liberation Army (OLA). Il leader di Ola, Kumsa Diriba, ha detto che entrambi, (TPLF e OLA) sono pronti a collaborare per combattere lo stesso nemico: “La nostra cooperazione sarà soprattutto militare, anche se finora non combattiamo fianco a fianco”, ha precisato Kumsa.
OLA si è separato l’anno scorso dal partito d’opposizione Oromo Liberation Front. Gli oromo sono il maggiore gruppo etnico dell’Etiopia.
La guerra ha un peso non indifferente anche dal punto di vista economico che si ripercuote in tutto il Paese. L’inflazione cresce di giorno in giorno. L’accesso al credito diminuisce e cominciano a mancare alcuni alimenti nella grande distribuzione.
Non c’è da meravigliarsi, il conflitto sta prosciugando le casse; in poco meno di 10 mesi è costato oltre un miliardo di dollari. E prima della pandemia e dell’entrata in guerra, l’economia dell’Etiopia era considerata una delle più emergenti della regione, con una crescita annua del 10 per cento fino al 2019.
Nel 2020 l’incremento è sceso al 6 per cento ed ora, nel 2021 è appena al 2 per cento. Si prevede che il debito pubblico raggiunga 60 miliardi di dollari, ossia il 70 per cento del PIL.
Secondo alcuni osservatori il decremento potrebbe essere anche maggiore, in quanto le spese militari potrebbero essere ben più alte del previsto e il governo potrebbe aver contratto altri debiti non dichiarati in passato.
Intanto nel Tigray mancano ancora i servizi essenziali, anche le banche sono praticamente fuori servizio, altrettanto le telecomunicazioni, specie da quando i “ribelli” hanno riconquistato il capoluogo Makallé a giugno. Per non parlare delle scuole, oltre 7.000 edifici scolastici sono stati danneggiati, se non distrutti; attualmente 1.42 milioni di studenti non possono frequentare le lezioni.
Molte organizzazioni non governative, come Medici senza Frontiere sono stati cacciati dal Tigray dal governo di Addis Ababa, la Chiesa cattolica etiopica ha invece sospeso gli aiuti umanitari nella regione per la crescente insicurezza. Lo ha fatto sapere padre Gabriel Woldehanna, vice segretario generale della conferenza episcopale dell’Etiopia. L’organizzazione religiosa coordinava i supporti di Caritas e di altri partner internazionali.
Cornelia I. Toelgyes
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