Speciale per Africa ExPress
Ambrogio Franceschi
Agosto 2021
“Il mare non è infinito, io vivo con un senso di colpa”. La storia di Ilaria sta in queste poche parole. Ventiquattro anni, di origini sarde ha vissuto fin da bambina nel cuore di Dakar dove il padre ha tutt’ora un’azienda che lavora il pesce e lo esporta surgelato in Italia Non ne aveva ancora 10 quando il mare è diventato il suo migliore amico, gli squaletti a riva dell’oceano i suoi compagni di giochi, come li chiama lei.
Surfare sulle onde e immergersi nei fondali da allora sarebbero stati il suo mondo.
Ilaria Congiu è cresciuta nei porti africani vedendo le piroghe che buttavano le reti all’alba, i pescatori che rientravano con il profumo dell’oceano sulla pelle: “La vita nel mare è diminuita – racconta con rassegnazione – non è più la stessa di un tempo” I fondali vengono ormai depredati da grandi multinazionali (soprattutto coreane e cinesi) che a partire dal 2008, hanno lasciato alle pesca artigianale solo gli scarti.
Ha lo sguardo triste quando ne parla, descrive le loro navi come grandi aziende galleggianti che non hanno il minimo scrupolo sulla misura dello sfruttamento. Arrivano, pescano, congelano a bordo ed esportano.
E chi come Ilaria ha il mare dentro non può stare a guardare. Ecco perché da Dakar è andata a Parigi per studiare giornalismo, specializzarsi in regia di documentari per poi mettere il suo sapere al servizio di una causa ambientale. Si chiama Breath (Souffle) il documentario cinematografico al quale sta lavorando e che uscirà nel 2023.
Abbiamo avuto il privilegio di leggerne la sinossi, in gergo il riassunto del suo racconto che partendo dal Senegal si sposta nel mar Mediterraneo. Un racconto che si snoda fra Senegal, Tunisia, Sicilia e Calabria per denunciare attraverso le immagini una piaga della quale si parla troppo poco.
“Non solo gli oceani – continua a spiegarci sconsolata – tra i mari più sofferenti al mondo c’è proprio il Mediterraneo, sovrasfruttato al 70 per cento. Per avere un’idea basti pensare che solo l’Italia ad aprile finisce le sue risorse di pesce disponibile, ed ogni anno questo giorno, il Fish dependance day anticipa sempre di più.
In sostanza il nostro continente – in termini ittici – non è più autosufficiente “Quello che mi chiedo ogni giorno – spiega ancora Ilaria- è se davvero stiamo uccidendo il mare”.
Prima di cominciare a girare Breath, Ilaria si è unita all’equipaggio della Sea Sheperd Italia, una ONLUS che con le sue navi pattuglia le coste per constatare le attività illegali che avvengono in mare.
“Con loro sono stata a bordo 3 mesi e – racconta – solo così ho capito davvero quello che già immaginavo. Una mattina mi hanno chiamata per mostrarmi una rete enorme, delle dimensioni pari alla metà di un campo da calcio, dove i tonni vengono imbrigliati per poi essere portati a Malta ed essere uccisi”.
È troppo grande perché si rendano conto dei confini entro i quali possono nuotare in libertà: alla fine migliaia e migliaia di esemplari continuano a girare su se stessi. “Sia ben chiaro – specifica Ilaria- non si tratta di pesca illegale. Ma è un approccio industriale, diverso a quello che ho sempre avuto sotto gli occhi fin da piccola, sono cresciuta a stretto contatto con i pescatori artigianali senegalesi che ancora legano dei vasetti ad un filo per attirare i polpi”.
Dopo questa esperienza di volontariato in mare il suo progetto ha preso definitivamente forma. All’inizio del documentario che è un lungo viaggio dentro la sua vita, incontrerà dopo anni Ibrahima che da sempre lavora con suo padre. Per lei quasi uno zio. Da lui saprà che il pesce senegalese in pratica non esistite più. Lui ormai riesce a sopravvivere solo grazie alle correnti che arrivano dalla Mauritania.
Ci vorranno quasi due anni per portare a termine il progetto di Breath. Ilaria non si ferma, è un fiume in piena. Ora è in Italia solo per un periodo ma il suo mare la chiama. A settembre dopo vari sopralluoghi tornerà a Dakar, dove tutto è cominciato, poi sarà la volta della Tunisia: qui la situazione politica e sanitaria ha però ritardato il lavoro.
Il suo cruccio restano gli oceani silenziosi e privi di vita ai quali vuole dare voce, lo sfruttamento alimentare di migliaia di specie che spesso – sottolinea – finiscono sulle nostre tavole dopo una lavorazione che ne ha alterato il colore. “L’ arancio del salmone ormai – dice -si sceglie sulle palette”.
Tutto questo vedremo in Breath il prima e il dopo, il mare che unisce ma separa i continenti, il confronto con il padre rimasto in Africa. Entreremo soprattutto nel cuore di una giovane donna che ci saluta così: “È come se vedessi il mare bruciare, quello che accade alle foreste accade anche agli oceani ma nessuno vuole vedere”.
Ambrogio Franceschi
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