Speciale Per Africa ExPress
Enzo PolverigianiĀ
28 agosto 2021
A metĆ del 2013 giĆ si parlava diĀ forte riduzione e poi di conclusione dellāimpegnoĀ Isaf in Afghanistan.Ā La data di riferimento era fissata al 31 dicembre 2014.Ā A Herat,Ā nelĀ Regional commandĀ WestĀ affidato agli italiani, le voci si concretizzavanoĀ con lāabbandono diĀ basiĀ e avamposti come Farah e Bala Baluk.
Anche gli americani, dal canto loro, si preparavano ad abbandonare laĀ base aerea di Shindad,Ā lasciando equipaggiamenti per milioni di dollari. “Ci costerebbe di piĆ¹ portarceli via – diceva un ufficiale – li lasceremo in dotazione allāesercito afghano”.Ā SāĆØ vistoĀ poiĀ comāĆØ andata.
Ā Del clima di parziale smobilitazione risentiva anche una delle strutture. InĀ quegliĀ anni rappresentavaĀ piĆ¹ di altreĀ il supporto dell’Italia all’Afghanistan e Ā in futuro,Ā almenoĀ secondo i piani,Ā sarebbe statoĀ il perno della nostra piĆ¹ contenuta presenza inĀ unĀ paeseĀ devastato eĀ da reinventare.
Agire in ambito sociale
IlĀ PRT, Provincial Reconstruction Team,Ā fin dal 2005Ā avevaĀ finanziato con oltre 40 milioni di euro – stanziati dalla Difesa – progetti e ricostruzioni nella provincia di Herat: una sessantina di scuole, strade e ospedali, carcere, aeroporto, restauro della Moschea blu.
Ma soprattuttoĀ avevaĀ agito in ambito sociale,Ā cercando di contrastareĀ la soggezione forzata della donna afghana – di cui il burqa rappresentavaĀ il simboloĀ piĆ¹ radicaleĀ – con struttureĀ dedicate, comeĀ il Business woman centre, il grande magazzino nel centro di Herat gestito solo da donne. Anche per questo la sede del PRT a Camp VianiniĀ eraĀ stataĀ colpitaĀ daĀ un drammatico attentato dinamitardo, con cinque militari feriti.
Camp Arena
Nell’ufficio di Camp Arena, ultima sede del PRT, c’eraĀ il comandante, colonnello Vincenzo Grasso, dotato di humour ma anche rispettoso delle usanze locali. “Il nostro programma ĆØ piĆ¹ facile a dirsi che a farsi :Ā sostenere il governo Karzai e rafforzare la fiducia della popolazione nella legalitĆ e nell’autoritĆ locale” spiegava.
“Personalmente – raccontava – tengo i contatti con il presidente della provincia di Herat, Waidi Fasullah, del quale sono amico, e insieme lavoriamo su educazione, sanitĆ , opere idriche e anche fognature. L’acqua, come in tutto l’Afghanistan, ĆØ un’emergenza. Ma anche i servizi igienici, per esempio, sonoĀ quasi inesistenti. Gli afghani volevano i gabinetti fuori della scuola, e noi siamo riusciti a convincerli che bisognerebbe metterli dentro. Insomma, ci vuole pazienza. E le amicizie giuste sono indispensabiliā.
Gioia negli occhi
E le donne,Ā le violenze,Ā ilĀ burqa? Il colonnello allargavaĀ le braccia: “Siamo lontaniĀ anni luceĀ da una vera paritĆ dei sessi. Il governo proclama che ĆØ ora di dare alle donne maggiori responsabilitĆ , ma fra il dire e il fare…Facciamo il possibile anche sotto l’aspetto sociale, ma occorre tempo, e anche coraggio, per andare contro le tradizioni.Ā La societĆ afghanaĀ non vedeĀ di buon occhio lāimposizione dallāesterno di forme di emancipazione e democrazia.Ā Tuttavia, qui a Herat ho visto la gioia negli occhi dei bambini di una scuola. Sono centinaia, nel cortile c’ĆØ anche la tenda dell’Unicef. Uno spettacolo che allarga il cuore e che fino all’altro ieri non era possibile. Un messaggio di speranza”.
Siamo andati a verificare questo messaggioĀ con il colonnello, a bordo di gipponi Toyota bianchi, anonimi ma molto blindati. I piĆ¹ grintosi Lince darebbero ai civili āun segnale di occupazioneā inopportuno. Finestrini serrati, iĀ suvĀ procedonoĀ velociĀ in filaĀ indianaĀ e impediscono con rapide manovre l’inserimento di altre auto nel convoglio.
Il centro di Herat ĆØ tutto un vociante e strombazzante bazar in movimento, spiccano turbanti scuri e shalwar, gli abiti tradizionali degli uomini e i burqa celesti o i meno estremi hijab bianchi – i veli – dei gruppi di donne con in braccio i bambini. Ecco leĀ famigerate Corolla bianche, le auto preferite daiĀ terroristi.
Scrutare il pericolo
“Ce ne saranno diecimila a Herat, quale sarĆ quella giusta?” ironizzava il caposcorta.Ā Insomma,Ā un fiume di veicoli di ogni tipo daĀ scrutare con occhio allenatoĀ perĀ individuare il piĆ¹ piccolo segnale di pericolo. CosƬĀ erano costretti a muoversi, nelle cittĆ afghane, gli uomini dell’IsafĀ ormai a fine missione di pace: conĀ i nervi tesi, le armi in pugno e il dito sul grilletto.
Ecco la scuola, in una stradina, con accantoĀ il cantiere di una seconda palazzina finanziata dal PRT. E c’era tutto ciĆ² che ciĀ avevaĀ promesso il colonnello. Le scolaretteĀ eranoĀ in divisa: abito nero e il viso, quasi sempre bellissimo, incorniciato dal velo bianco.
Si coprivano gli occhi scuri e ammiccanti, ma poi la curiositĆ Ā eraĀ piĆ¹ forte e davanoĀ una sbirciata agli sconosciuti, per nascondersi subito dietro il velo con risatine soffocate. Anche le insegnanti, belle ragazze con un’ombra di trucco,Ā erano velate come la direttrice Sina Shaidxar, che spiegava: “Questa ĆØ una scuola quasi interamente femminile, con migliaia di bambine. E una donna senza educazione non puĆ² essere mamma di figli che dovranno servire la patria. Intanto ringrazio l’Italia, ancora una volta, ma ora ĆØ fondamentale riuscire a essere autosufficienti. Anche se mi auguro che gli italiani, quando lasceranno la loro missione, continuino a collaborare con noi”.
Alla facoltĆ di giornalismo
AllāUniversitĆ della Repubblica islamica dellāAfghanistan, facoltĆ di giornalismo,Ā le prime parole del presideĀ Nimatullah Sarwari sono di circostanza, ma poi si riempiono di amarezza e sconforto. “Afghanistan e Italia hanno molti aspetti in comune. Noi con il PRT abbiamo un ottimo rapporto, che speriamo prosegua anche dopo. Ma la sicurezza e i diritti umani sono gravemente compromessi. Negli ultimi vent’ anni, nel mio Paese, sono stati uccisi ventisette giornalisti tra cui, nel 2001, la vostra Maria Grazia Cutuli. Eravamo certi che le autoritĆ avrebbero investigato su queste morti, e invece ĆØ sempre buio fitto. La guerra non offre alcuna soluzione: non abbiamo bisogno di eserciti, ma di cultura, di istruzione, e i giornalisti possono fare molto. Dobbiamo motivarli, mandarli nei villaggi a diffondere notizie vere. Vorremmo che qualche nostro giornalista venisse in Italia, a imparare. Vedete questi ragazzi e ragazze? La loro sola ambizione ĆØ di lavorare, ma la situazione occupazionale non ĆØ buona. Qui purtroppo nonĀ cāĆØĀ mercato”.
Avevamo voglia di dirgli “anche noi,Ā su questo punto,Ā non siamo messi bene”, ma lāabbiamo lasciato concludere: “Questo ĆØ un paese colpito da una secolare fatwa, una maledizione, e frammentato in piĆ¹ parti tra le aree tribali incontrollabili, l’area di Kabul col governo Karzai a sovranitĆ limitata,Ā predaĀ della corruzioneĀ piĆ¹ sfrenata, e il sud sempre in bilico politicamente e in mano ai contrabbandieri e ai signori della droga. Qualcuno ha paragonato la situazione afghana al tradizionale gioco del buzkashƬ, in cui i cavalieri si disputano selvaggiamente la carcassa di una capra senza testa: metafora perfettaĀ dell’Afghanistan”.
Sprofondato nel Medioevo
Oggi il ministro Di Maio promette,Ā nella retorica dellāufficialitĆ ,Ā di non abbandonare le donne e le ragazze afghane al loro destino. Ma giĆ allora, a metĆ della missione Isaf, si era fatto poco o nulla:Ā l’AfghanistanĀ eraĀ ancora sprofondato nel Medioevo, a eccezione di qualche faticoso spiraglio di modernitĆ . PerciĆ² eraĀ diffusoĀ il timore di un nuovo salto nel buio,Ā di un giro di vite integralista, di un ritorno alla tradizione piĆ¹ ferocemente maschilista una volta partiti i soldati dell’IsafĀ e rientrati i talebani nel governo, come si prospettava.Ā Anche per questo molte donne afghane non abbandonavano il burqa.Ā Un poā per fedeltĆ alle tradizioni, e molto per la paura del futuro.
Dunque, la strada versoĀ iĀ pieni dirittiĀ eraĀ ancora lunga, ma un messaggio di speranzaĀ ci veniva consegnato daĀ Nahid Ahmad, fiera di non portare il velo come le colleghe.Ā Bellissimi occhi scuri e bistrati, atteggiamento spigliato, minigonna altrettanto disinvolta,Ā affermavaĀ con sicurezza: “Meno di dieci anni fa le donne in Afghanistan erano trattate come schiave. Non potevano studiare all’universitĆ , erano schiacciate sotto il tallone dello spietato fanatismo dei talebani. Venivano uccise dai loro stessi mariti e fratelli per un niente. In questi ultimi anni le donne hanno ottenuto piĆ¹ diritti, possono esprimersi quasi liberamente e possono essere parte attiva della comunitĆ . Naturalmente accadono ancora cose orribili tra le mura domestiche, ma ora le donne afghane non sono piĆ¹ disposte a tornare indietro. SperoĀ tanto che la politica non subisca un’involuzione autoritaria”.
Un paradossoĀ dalle alte muraĀ eraĀ il carcere: per molteĀ giovani donne rappresentavaĀ unĀ mezzo per sfuggire ai maltrattamenti e alle violenze domestiche.Ā Spose forzate ancora bambine, oĀ scappateĀ per evitare quel destino; costrette a nascondersi sotto il burqa per ānon indurre in tentazioneā; minacciate, seviziate, imprigionate soltanto per āaver pensato all’adulterioā, oppure, ed ĆØ sbalorditivo, per aver āsubito uno stuproā. Ridotte schiave, vendute per acquistare cibo, le donne afghane, molto spesso, sono esasperate fino all’omicidio.
Carcere o scuola di formazione ?
Questo penitenziario-rifugio-albergo,Ā alloraĀ diretto dal generale Sadegi, si trovavaĀ al centro di Herat, costruito su progetto del PRT con finanziamento della Difesa e dell’Unione Europea,Ā e ospitavaĀ circa duecentoĀ donneĀ e settanta bambini che vivevano con le madri. La maggior parte accusate di prostituzione,Ā eĀ anche di omicidio, sequestro e favoreggiamento, in questi casi complici di bande criminali. Ma perfino il generale, robusto, baffuto e paternalista, esprimevaĀ le sue attenuanti generiche: “Per i talebani e gli integralisti islamici la donna non esiste”.Ā Cāera da crederci, se lo diceva lui.
Sembrava, piĆ¹ che un carcere, una scuola di formazione con sala internet, reparto di estetista, sartoria; solo l’ombra delle inferriate, disegnata sui tappeti consunti e sulla moquette strappata via, riportavaĀ alla realtĆ . Queste detenute anomale guarnivano camicie con i suzani, i ricami tagiki, imparavano a truccare occhi e bocche, navigavano in rete mentre i bambini, in un’altra sala,Ā eranoĀ intenti ai loro giochi chiassosi e si raggruppavano, con curiositĆ , intorno ai visitatori.
Abiti e oggetti d’artigianatoĀ erano esposti in una stanza.Ā Dai veli delle donne radunate in crocchiĀ emergevano bei visi olivastri, grandi occhi sgranati, piercing tradizionali e complicati, pesanti orecchini d’argento āpoveroā con monete e conchiglie incastonate.
PiĆ¹ che guardare al passato, quelle donneĀ e ragazze eranoĀ protese verso il futuro.Ā SempliciĀ frasi svelavano progetti, intenzioni, desideriĀ profondi. Nasime, per esempio, raccontavaĀ di aver subito, nella sua casa, violenze continue da un marito sposato a forza, ma dicevaĀ cheĀ prima o poi sarebbe tornataĀ al villaggio.
Non voleva andarseneĀ all’estero?Ā “No, perchĆ© questo ĆØ il mio Paese, ho ancora fiducia in un cambiamento”.Ā Se si pensaĀ a quello cheĀ sta accadendo in Afghanistan,Ā sette anni dopo, quelle parole fanno ancora piĆ¹ male.
Enzo Polverigiani
enzo.polve@gmail.com
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