Cornelia I. Toelgyes
11 agosto 2021
L’Etiopia chiude o riduce all’osso il personale, che richiama in patria, di alcune delle sue ambasciate all’estero (una trentina). Ma molti dei diplomatici, dei quadri e degli impiegati sono tigrini e non hanno alcuna intenzione di rientrare. C’è il rischio di finire in prigione o addirittura passati per le armi. Un’ipotesi più che possibile. Come sostengono alcune informazioni non confermate giunte ad Africa ExPress. Secondo alcuni twitt, molti soldati originari del Tigray che facevano parte delle forze armate etiopiche, ENDF (Ethiopian National Defense Force), sono stati arrestati all’inizio del conflitto. Non si esclude che molti di loro siano stati fucilati.
Se le informazioni contenute nei twitt sono esatte, si tratta di un massacro ben pianificato. I soldati ammazzati sarebbero almeno 1200. Presi di mira e uccisi per la loro appartenenza etnica. Un eccidio che sicuramente attirerà l’attenzione della Corte Penale Internazionale, il cui compito è di occuparsi di crimini di guerra, crimini contro l’umanità e genocidio. Una bel grattacapo per il comitato che si occupa dell’attribuzione del premio Nobel per la pace, nel 2019 troppo frettolosamente assegnato al primo ministro etiopico Abyi Ahmed, l’uomo che non ha esitato a scatenare la guerra civile nel suo Paese.
La rappresentanza diplomatica a Washington è stata chiusa de facto dopo le tensioni che si sono create con gli USA. La scorsa settimana il segretario di Stato, Anthony Blinken, ha discusso a lungo con il premier sudanese, Abdalla Hamdok, la situazione del conflitto in Tigray, l’espansione della guerra nelle regioni Amhara e Afar e la vicenda delle truppe eritree che stavano per rientrare in Etiopia (ammesso che si siano mai ritirate). Blinken aveva chiesto espressamente a Hamdok di tentare una mediazione.
Non si esclude che funzionari e personale diplomatico (specie chi è originario del Tigray) della ambasciata negli Stati Uniti possano chiedere asilo politico negli USA. Lo stringer di Africa ExPress in Kenya ha accertato che una simile situazione sembra essere presente anche nella sede diplomatica di Narobi. Finora tali notizie non hanno trovato conferma nei siti istituzionali.
Come era ben prevedibile, l’Etiopia ha rifiutato la mediazione del Sudan per risolvere la crisi nel Tigray. Già all’inizio del conflitto Abiy Ahmed, primo ministro etiopico al potere dal 2018, aveva detto a chiare lettere agli inviati dell’Unione Africana, Ellen Johnson-Sirleaf ( Liberia), Joaquim Chissano (Mozambico) e Kgalema Motlanthe (Sudafrica) – tutti ex presidenti – di non gradire una conciliazione da esterni. Anzi, dopo un breve colloquio, non ha nemmeno permesso agli intermediari di visitare la martoriata regione del Tigray.
Ora Abiy non ha accettato nemmeno l’intervento di Abdalla Hamdok, tra l’altro presidente di turno di IGAD (“Autorità intergovernativa per lo sviluppo”), un’organizzazione internazionale politico-commerciale, i cui membri sono: Kenya, Ethiopia, Uganda, Gibuti, Sudan, Sud Sudan, Somalia, Eritrea (attualmente non partecipa alle riunioni). Eppure con il Sudan le questioni da risolvere sono parecchie, come i molti rifugiati etiopici ora ospitati dal governo di Khartoum, la disputa per la piana di al-Fashqa, fertile territorio di 12 mila chilometri quadrati, coltivato per lo più da contadini etiopici, ma rivendicato dal Khartoum. E infine resta ancora irrisolto il problema del Grand Ethiopian Renaissance Dam (GERD), fortemente contestato da Egitto e Sudan.
Eppure nel giugno 2019 Abiy è stato uno dei mediatori durante la crisi in Sudan, ma oggi nega categoricamente questo ruolo a Hamdok che, per tutta risposta, ha richiamato Gamal al-Sheikh, ambasciatore sudanese accreditato a Addis Ababa.
Le truppe del Tigray poco a poco hanno riconquistato gran parte della loro regione, spingendosi anche nelle zone amhara e afar. Hanno persino conquistato la città amhara di Lalibela, seconda per importanza archeologica solo a Axum. Lalibela è famosa per le per le chiese monolitiche scavate nella roccia e è stata proclamata patrimonio dell’umanità dall’UNESCO.
Questi nuovi combattimenti al di fuori del Tigray hanno costretto oltre 200 mila persone a lasciare le proprie case. L’UNICEF, preoccupata per l’espandersi del conflitto, ha denunciato che il 5 agosto, durante attacchi a famiglie sfollate che si erano rifugiate in una struttura sanitaria e in una scuola nella regione di Afar, sono state uccise 200 persone, tra questi oltre 100 bambini .
Le atrocità commesse in questo conflitto non si contano più e nel suo ultimo rapporto anche Amnesty International conferma stupri e violenze commessi nel Tigray dalle truppe etiopiche e alleati come arma da guerra.
Intanto Abiy è alla ricerca di nuove leve per continuare la guerra nelle regioni del nord del Paese e il governo ha fatto un appello ai giovani perché si arruolino nelle forze armate e nelle forze speciali. L’appello del premier giunge sei settimane dopo che ha dichiarato un cessate il fuoco unilaterale nel Tigray, subito dopo la riconquista di Makallè da parte delle forze del TPLF (Tigray People’s Liberation Front).
Tentare di vincere la guerra arruolando migliaia di giovani senza un addestramento specifico non sarà semplice, in quanto la morfologia del terreno in Tigray è estremamente complessa: bisogna conoscere il terreno per affrontare seriamente il nemico.
Cornelia I. Toelgyes
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