Questo è il terzo e ultimo di una serie di articoli che spiegano
perché una guerra fratricida e insensata ha interrotto il sogno del premier Meles Zenawi
che aveva cercato di costruire un’Etiopia plurale e democratica
Massimo A. Alberizzi
20 luglio 2021
Meles sogna un’Etiopia democratica e avanzata ma si scontra con la realtà africana piena di contraddizioni, ambizioni personali, incoerenze e appetiti nascosti. Su due cose riesce a tenere inchiodato il Paese: l’abolizione di fatto della pena di morte (Mengistu viene condannato in contumacia all’ergastolo) e la lotta alla corruzione, contenuta a un livello basso, rispetto agli altri Paesi del continente.
Nel 2008, pochi giorni dopo che l’ONU ha lanciato il mandato di cattura per crimini di guerra e contro l’umanità verso il dittatore sudanese Omar Al Bashir, per la sua guerra in Darfur, fa una dichiarazione a suo favore. Gli telefono: “Ma come? Mi avevi assicurato che gente come lui deve essere finalmente condannata! Hai cambiato idea?”
“Per forza – risponde giustificandosi -. Non posso condividere la decisione della Corte Penale Internazionale e neanche dire che le Nazioni Unite hanno ragione, altrimenti Bashir mi organizza una guerriglia ai confini e devo fronteggiare un’altra minaccia. Troppo pericoloso per l’Etiopia”.
Un anno prima, alle mie rimostranze sulla rete (assai scadente) dei cellulari affidata ai cinesi: “Lo so non funzionano. Non immaginavo, altrimenti avrei rifiutato il loro aiuto nonostante ci abbiano dato un sacco di soldi”.
Nel 2010 nuove elezioni che vince con un sospetto 99 per cento dei voti: troppi. Forse Meles è già malato e si moltiplicano le voci che voglia “lasciare”. Sceglie come vice Haile Mariam Desalegn, esponente di un’etnia minore, i Wolaytta, e non copto ma protestante, con studi in Finlandia.
La coalizione di partiti al potere l’ Ethiopian People’s Revolutionary Democratic Front ideata durante la guerra partigiana contro il dittatore Mangistu Hailé Mariam, assieme a Sabat Nega (ideologo del Tigray People’s Liberation Front) e Seyum Mesfin (suo ministro degli Esteri) sta realizzando quello che è il progetto di un’Etiopia unita nelle diversità. Certo i tigrini continuano a occupare un ruolo rilevante nella società. Soprattutto hanno in mano l’economia della nazione. Ma il loro potere già stato eroso lentamente ma inesorabilmente.
Infatti Meles cerca di concedere un po’ di spazio anche agli altri gruppi etnici, agli oromo, prima etnia del Paese, e agli amhara che avevano espresso la classe dirigente del Paese per decenni. Li piazza in alcuni punti chiave dell’amministrazione e concede loro alcuni ministeri. Agli Oromo tocca la presidenza della repubblica cui la Costituzione etiopica però riserva per un ruolo poco più che onorario.
All’inizio degli anni 2000 Meles aveva dovuto fronteggiare la guerra di una fazione interna al TPLF che lo accusava di voler dividere il potere con le altre etnie e di essere troppo accondiscendente con i loro desideri. “Non posso e non voglio costruire l’Etiopia soltanto attorno ai tigrini. La democrazia vuol dire anche distribuzione del potere e delle ricchezze tra tutti i cittadini. Sono questi i miei obbiettivi”, mi aveva confessato.
Con il “se” non si fa la storia, lo so, ma mi piacerebbe tanto sapere cosa sarebbe oggi dell’Etiopia e della terribile guerra in cui è sprofondata, se Meles Zenawi non fosse morto di tumore in un ospedale belga il 20 agosto 2012. Sapevo che era ricoverato, ma il suo staff mi aveva assicurato non più di due giorni prima che stava migliorando e se la sarebbe cavata. Invece il destino ha deciso diversamente.
Nonostante le contraddizioni della sua politica, l’Etiopia sotto il governo di Meles ha conosciuto una rapida crescita economica. La sua morte ha sicuramente fatto felice il suo amico di infanzia poi diventato il suo più feroce nemico: il dittatore dell’Eritrea. Isaias Afeworki.
I detrattori di Meles, con cui ho parlato spesso, sostenevano che il contegno liberale e democratico che aveva con me era solamente un atteggiamento di facciata. In realtà – secondo loro – il Meles Zenawi primo ministro esercitava il potere con il pugno di ferro.
Io però la penso diversamente e per questo cito alcuni elementi importanti della sua politica: appena preso il potere con la cacciata di Mengistu, aveva cominciato a smobilitare l’esercito (solo la guerra scatenata dagli eritrei nel 1998 l’aveva costretto a invertire la rotta), liberalizzato la stampa, permesso la costituzione di partiti politici e promulgato una Costituzione che contempla un’organizzazione parlamentare e non presidenziale dello Stato.
E infine, l’organizzazione che aveva dato alla politica del Paese non era assolutamente autoritaria. Se fosse stata altrimenti, il primo ministro attuale, Abyi Ahmed non avrebbe potuto conquistare il potere pacificamente e con mezzi democratici; e non avrebbe mai potuto scatenare la guerra contro i tigrini come ha fatto ora. Addirittura tentando di mettere in atto un genocidio. Ma non solo. Qualunque dittatore in Africa non avrebbe aperto l’esercito ad alti ufficiali che non fossero del suo stesso gruppo etnico o addirittura suoi parenti. Avrebbe puntato sulla fedeltà e non sulla competenza e professionalità.
Atteggiamenti apertamente liberali e in linea con quello che lui pensava per costruire un’Etiopia pluralista e democratica. Ho letto critiche pesanti sul suo conto, frutto della campagna di disinformazione lanciata dai suoi avversari, primo fra tutti il despota eritreo, Isaias Afeworki.
Il tentativo di Meles di coniugare democrazia, pace e sviluppo si è scontrato con la dura e triste realtà della società tribale africana. Lo stesso è accaduto in Ruanda dove Paul Kagame, preso il potere dopo il genocidio, ha tentato un passaggio democratico ma è tornato velocemente sui suoi passi, quando sono riemersi rigurgiti di fanatica intolleranza razziale. Ha ridotto gli spazi democratici ma ha assicurato al suo Paese una crescita che non ha uguali nel continente,
Mi vengono in mente le parole del presidente ugandese Yoweri Museveni che avevo intervistato alla fine degli anni ’80, quando in Sudafrica era ancora in vigore la sciagurata segregazione razziale. Mi aveva accolto nel suo ufficio con un certo malcelato disprezzo apostrofandomi e rimproverandomi più o meno così (e lasciandomi impietrito): “Voi giornalisti occidentali parlate solo del Sudafrica e dell’apartheid. Non vi rendete conto che il razzismo violento e profondo esiste anche nel resto dell’Africa dove i neri emarginano, combattono e uccidono altri neri. Il razzismo non è un fatto solo di colore della pelle. E’ una questione di conoscenza e coscienza del valore della vita e dell’individuo”.
Massimo A. Alberizzi
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(3 – fine)
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