Questo è il secondo di tre articoli che spiegano
perché l’Etiopia, con la guerra scatenata dal premier Abyi Ahmed,
è finita nella violenza insensata e razziale
Speciale Per Africa ExPress
Massimo A. Alberizzi
18 luglio 2021
Nel maggio 1998 il sogno di Meles viene interrotto bruscamente. Gli eritrei scatenano la guerra per rivendicare un piccolo e insignificante villaggio, Badme. Un lembo di terra, una pietraia infuocata dal sole. Una guerra sciagurata voluta dal presidente eritreo, Isaias Afeworki, guerrafondaio incallito.
Meles, colto di sorpresa, (tra l’altro era già a buon punto con la smobilitazione dell’esercito), arretra; ma esattamente dopo due anni, nel maggio 2000, lancia una controffensiva devastante. Le sue truppe arrivano alle porte di Asmara. E si fermano e si ritirano solo grazie alle pressioni della comunità internazionale. Segue un armistizio che pone fine alle ostilità.
Ad Asmara il dittatore eritreo accentua la repressione e il 18 settembre 2011, mentre il mondo sconvolto è ancora attonito per l’attentato alle due torri, caccia in galera un bel po’ di ministri, giornalisti, intellettuali e critici del suo regime.
Meles, sebbene amareggiato e turbato oltreché deluso da una guerra che lo vede sì vincitore ma che avrebbe volentieri evitato, ricomincia il cammino verso la costruzione del suo Paese per realizzare il suo sogno: la costruzione di un’Etiopia moderna e democratica. Ora teme oltre che i nemici interni anche quelli fuori dal Paese. Stringe ancor più i legami con gli Stati Uniti. Ci vediamo un paio di volte l’anno e credo che con me si sfoghi.
Nel 2004 in Ruanda, durante le manifestazioni per il decennale del genocidio allo stadio di Kigali, siede nella tribuna d’onore assieme ad altri presidenti e primi ministri. Mi vede mentre sono sul campo di calcio assieme agli altri giornalisti. Violando protocollo ed etichetta si alza in piedi e si sbraccia come un forsennato per salutarmi.
Nel febbraio 2005 assiste al megaconcerto per celebrare il sessantesimo anniversario della nascita del re del reggae, Bob Marley, morto di cancro nel 1981, all’apice della sua carriera. Mi vede tra il pubblico e mi chiama per presentarmi la moglie Azieb e i figli e confessa. “Vorrei ritirarmi. Vedi, mi piacerebbe avere una vita normale con concerti, visite ad amici, vacanze”.
E assieme a Rita Marley, la vedova di Bob: “Vogliamo che in Africa non parlino più mitra e cannoni, ma chitarre e tamburi”. Buoni propositi, ma difficili da realizzare in un contesto africano dove le aspirazioni comuni non esistono e prevalgono le smanie di potere condite da tribalismi che nascondono solo ambizioni personali.
Il cammino verso la democratizzazione e lo sviluppo del Paese si interrompe brutalmente pochi mesi dopo, quando vengono indette le elezioni generali. Meles è convinto di vincerle, ma durante lo spoglio perde il sindaco di Addis Abeba e si delinea la sua sconfitta.
Si imbrogliano così le carte e il risultato finale si ribalta. La polizia mitraglia la folla che protesta. I morti sono almeno 200. Qualche tempo dopo ne parliamo. Sembra veramente turbato: “Non ho dato io l’ordine di sparare”, si difende.
Durante un nostro incontro alla domanda seccata sul perché tanti giornalisti cacciati in galera, dopo aver chiesto alla fedele segretaria Aster (che parla perfettamente italiano) di tradurmi alcune parti di articoli di giornale, risponde: “Hai visto? Questi non scrivono né storie, né commenti, ma incitano all’odio etnico. Non posso permetterglielo, altrimenti mi “salta” il Paese”.
Sapeva che le rivalità e gli antagonismi etnici potevano rappresentare il punto debole del suo progetto e mi aveva confessato la sua pena e il suo tormento: “Vorrei concedere più democrazia e più libertà, ma rischio che tutto naufraghi in un’ondata di violenza. Il nostro nemico non è l’Eritrea – aveva sottolineato – ma sono le rivalità etniche. Per costruire la nostra Etiopia dobbiamo combatterle e vincerle”. La storia ha dimostrato il questi mesi che non aveva torto.
Massimo A. Alberizzi
massimo.alberizzi@gmail.com
twitter @malberizzi
(2 – continua)
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