Massimo A. Alberizzi
16 luglio 2021
La guerra scatenata dal primo ministro etiopico Abyi Ahmed contro il Tigray, non ha causato solo centinaia di vittime, devastato la parte più prospera dell’Etiopia, prodotto un esodo biblico di profughi, ha anche distrutto il sogno di uno dei pochi statisti africani mai stati al potere, Meles Zenawi.
Tigrino, nato ad Adua, Meles aveva guidato la rivolta del TPLF (Tigray People’s Liberation Front) negli anni ’70 e ’80, quando l’ho conosciuto. Il gruppo, che si collocava su posizioni filo albanesi (cioè vetero-marxiste), nel 1991 aveva sconfitto, il dittatore militar comunista Mengistu Haile Mariam, grazie all’aiuto dei ribelli eritrei, con cui aveva stabilito una solida alleanza, e al sostegno degli Stati Uniti.
Già allora, comunque, sebbene alleati, i due fronti combattenti (TPLF e EPLF, Eritrean People’s Liberation Front) mostravano forti differenze ideologiche. In un documento tigrino di quegli anni dal titolo “Le nostre differenze con il EPLF” il movimento etiopico sosteneva che il diritto alla secessione doveva essere garantito nel futuro del Paese.
Gli eritrei, che pure volevano la loro secessione, non intendevano per nulla concederla agli altri. Un atteggiamento piuttosto curioso che però spiega assai bene l’attitudine egemonica mostrata dalla dirigenza eritrea.
Quando Meles Zenawi sale al potere nel 1991, prima come presidente transitorio e poi come primo ministro, sogna di trasformare l’Etiopia, che veniva dal regime feudale dei vecchi imperatori e poi da un durissimo sistema militar comunista, in un Paese democratico e moderno. Dopo i primi anni, spesi a organizzare la struttura burocratico-amministrativa devastata da quasi vent’anni di malgoverno e vessazioni del dittatore Mengistu Hailé Mariam, aveva cercato di applicare il suo sogno democratico.
Ho conosciuto molto bene Meles. Molto diverso dal suo ex amico d’infanzia, il dittatore eritreo, Isayas Afeworki (ho conosciuto anche lui), era riuscito a trasformarsi da capo guerrigliero ad abile statista, uno dei leader più stimati del continente.
Ogni volta che passavo per Addis Abeba bastava che gli telefonassi il giorno prima e mi riceveva per una chiacchierata. Non necessariamente un’intervista. Parlavamo di tutto. Una volta mi chiese di passare dal suo ufficio alle 6:30 del mattino costringendomi a una difficile levataccia. Oltre ad essere simpatico con doti di profonda empatia, era molto alla mano.
Quando l’ho visto la prima volta da vincitore nel suo ufficio ad Addis Abeba, subito dopo la cacciata di Mengistu nel maggio 1991, non l’ho trovato seduto su un trono, né dietro un’enorme massiccia scrivania, come avrebbe fatto qualunque dittatore africano tronfio del posto conquistato formalmente “in nome del popolo e della democrazia”, sostanzialmente per conto di se stesso e del suo interesse. Mi stava invece aspettando al lavoro seduto al posto della sua segretaria.
“Ti ho lasciato filo albanese e ti ritrovo filo americano”, lo salutai scherzosamente e lui mi rispose con una grossa risata senza spiegarmi questa metamorfosi politico filosofica. Negli anni ’80 l’Albania era l’unico Paese europeo che, chiuso e impenetrabile, diceva di applicare i rigidi precetti maoisti. I cinesi attraccavano alla base marittima di Valona, sul mar Adriatico.
Più volte in quegli anni mi ha parlato di programmi, di ricostruzione, democrazia reale, lotta alla povertà, sviluppo, cooperazione regionale. “Devo stare attento a non trasformare il mio Paese in una dittatura”, mi aveva confessato più volte preoccupato. Aveva messo anche in discussione – con un atteggiamento eretico – l’articolo 1 dello statuto dell’Unione Africana che fissa come un dogma l’intangibilità delle frontiere del continente. “Perché costringere due popolazioni che non hanno nulla in comune, nessun interesse, a vivere assieme? – riaveva spiegato -. Lo stravagante di questa difesa dei confini sta nel fatto che chi accusa le nazioni coloniali di aver cacciato le frontiere con il righello poi non vuole assolutamente rivedere queste scelte”.
Due anni dopo in Etiopia sarebbe stata varata una delle Costituzioni più moderne del mondo, l’unica parlamentare e non presidenziale di tutta l’Africa, che prevede, seppure con una procedura complicata, il diritto delle varie entità alla secessione.
Nel 1991 l’Etiopia è il primo Paese a riconoscere l’indipendenza dell’Eritrea e Meles si congratula con il leader, fino ad allora amico e fratello d’armi, Isaias Afeworki. Un mossa che molti etiopi (compresi parecchi tigrini) non gli hanno mai perdonato. Per parecchio tempo numerose auto in circolazione ostentavano un adesivo verde su cui era scritto “Ethiopia Tikdem”, cioè “Etiopia Unita”.
Massimo A. Alberizzi
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(1 – continua)
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