Speciale per Africa ExPress
Cornelia I. Toelgyes
4 luglio 2021
Migliaia di prigionieri di guerra sono stati internati nei centri di detenzione di Makallé, capoluogo del Tigray, Etiopia, venerdì scorso. Alcuni soldati erano feriti, con bende intrise di sangue fresco, altri, affamati e esausti. Hanno marciato per giorni dai campi di battaglia, dove sono stati catturati dalle truppe del Tigray People’s Liberation Front, partito al potere fino all’inizio della guerra, il 4 novembre 2020.
Una guerra civile che in 8 mesi ha messo in ginocchio tutta la popolazione della regione. Migliaia di persone sono state uccise in questi otto mesi dai contendenti: truppe governative etiopiche con l’appoggio di quelle eritree – che utilizzano anche militari somali – e amhara da un lato e tigrini del TPLF dall’altro. Gli sfollati superano 1,7 milioni e oltre 60 mila hanno cercato protezione nel vicino Sudan. Inoltre 5,5 milioni di civili hanno bisogno di urgenti aiuti umanitari mentre, secondo ONU, in 400 mila sono già stati colpiti dalla carestia, 900 mila sono invece le stime di USAID, l’Agenzia del governo americano per lo Sviluppo.
Il primo ministro etiopico, Abiy Ahmed, al potere dall’aprile 2018 dopo le dimissioni del suo predecessore, Hailemariam Desalegn, era stato accolto benevolmente sia dal suo popolo, nonchè dalla comunità internazionale. E’ stato persino insignito del Premio Nobel per la Pace 2019, per aver teso la mano al regime di Asmara, l’ex acerrimo nemico storico, oggi il maggiore alleato di Addis Ababa nella guerra in Tigray.
Dopo aver annunciato un cessate il fuoco unilaterale lunedì per questioni umanitarie, il premier ha dichiarato il giorno seguente che è assolutamente falsa la notizia che le sue truppe sono state sconfitte. Ma la parata di prigionieri di guerra a Makallé dimostra chiaramente il contrario.
Molti abitanti della capitale tigrina hanno seguito il lungo corteo dei detenuti. Una ragazzina di appena 14 anni ha commentato così indicando i prigionieri: “Tutti questi hanno cercato di ammazzarci, ma le forze del TPLF hanno avuto pietà di loro. Sono fiera dei nostri soldati”.
Il portavoce del TPLF, Getachew Reda, aveva annunciato giorni fa, parlando via telefono satellitare con i reporter di Reuters: “Operazioni sono ancora in atto, i prigionieri di guerra aumentano di ora in ora”. Durante la comunicazione, si percepiva il crepitio dell’artiglieria leggera.
Un risvolto, a dir poco sbalorditivo di questo conflitto interno, che ha portato la popolazione allo stremo. Uccisioni, carestia, violenze e stupri utilizzati come vere e proprie armi da guerra da parte delle forze etiopiche e i loro alleati sono stati ampiamente documentati.
Debretsion Gebremichael, leader del TPLF, ha detto di essere in contatto con il Comitato Internazionale della Croce Rossa, e che presto saranno rilasciati i militari gerarchicamente di grado inferiore. Gli ufficiali, invece, saranno trattenuti. Secondo la Convenzione di Ginevra del 12 agosto 1949, i prigionieri di guerra devono essere protetti, specialmente contro gli atti di violenza e d’intimidazione, contro gli insulti e la pubblica curiosità. Le misure di rappresaglia in loro confronto sono proibite.
Le organizzazioni internazionali sperano che, vista la grave situazione umanitaria, possano finalmente portare aiuti alla popolazione. Il ponte sul fiume Tekeze, distrutto qualche giorno fa dalle forze speciali amhara e dalle truppe eritree, fedeli alleati di Addis Ababa, ha impedito ai convogli di raggiungere Shire, nel centro del Tigray, dove si trovano tra 400 e 600 mila sfollati. La notizia è stata data dalla portavoce del World Food Programme, Claire Nevill. Un portavoce del governo etiopico ha confermato la distruzione delle vie d’accesso, attribuendo però la responsabilità alle forze del Tigray.
Debretsion ha assicurato che i leader del TPLF stanno cercando di fare il possibile affinché alimentari e beni di prima necessità possano raggiungere quanto prima la popolazione.
Mentre Reda, durante un colloquio telefonico di qualche giorno fa ha detto che le forze del Tigray potrebbero anche entrare in Eritrea se le truppe di Asmara dovessero continuare a attaccare la regione nel nord dell’Etiopia. Dalla fine di giugno sono in atto combattimenti tra i militari del TPLF e quelli eritrei nella parte nord-occidentale dell’Etiopia, in aree vicine alle città di Badme e Shiraro; lo dimostrano anche i documenti rilasciati dall’ONU.
Cornelia I. Toelgyes
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