Speciale per Africa ExPress
Cornelia I. Toelgyes
2 luglio 2021
Addis Ababa nega fermamente di essere responsabile del blocco degli aiuti umanitari nel Tigray, regione nel nord dell’Etiopia, dove da quasi 8 mesi si consuma un violento conflitto.
In un comunicato di questa mattina il governo ha respinto nuovamente le accuse di usare la fame come arma da guerra, anzi, ha sottolineato di fare tutto il possibile per ricostruire quanto prima le infrastrutture distrutte e di voler ripristinare corrente elettrica, telecomunicazioni, internet e i servizi bancari.
E il vice-primo ministro, Demeke Mekonnen, continua a accusare il Tigray People’s Liberation Front partito al potere fino all’inizio della guerra in Tigray, di attaccare i servizi pubblici.
Giorni fa il TPLF ha riconquistato il capoluogo Makallé. per tutta risposta il governo centrale ha dichiarato un cessate il fuoco immediato e unilaterale in tutto il Tigray – ufficialmente per motivi umanitari – chiedendo ai ribelli di fare altrettanto.
Il portavoce del TPLF, Getachew Reda, parlando ieri via telefono satellitare con i reporter di Reuters, ha detto che operazioni sono ancora in atto, i prigionieri di guerra aumentano di ora in ora. E, durante la comunicazione, si percepiva il crepitio dell’artiglieria leggera.
“Con il cessate il fuoco, i contadini potranno coltivare la propria terra”, aveva aggiunto il portavoce del governo. Forse per evitare nuove accuse di usare la fame come arma da guerra, visto che sono già centinaia di migliaia di persone raggiunte dalla carestia. Secondo le stime degli Stati Uniti sarebbero 900 mila le persone nella regione nel nord dell’Etiopia, colpite dalla fame. Samantha Power, capo dell’Agenzia USA per lo Sviluppo Internazionale (USAID), ha detto che altri milioni di persone sono a rischio di grave penuria alimentare.
Ma sono state proprio le truppe regolari, in particolare i loro alleati eritrei, a impedire agli agricoltori di coltivare le proprie terre. In base alle testimonianze dei residenti, sono arrivati persino a portare via il raccolto o di bruciarlo.
Abiy Ahmed ha chiamato le truppe di Asmara, l’ex acerrimo nemico storico, in territorio etiopico. E queste hanno ammazzato i civili e saccheggiato i loro beni, come si usava in Europa nel Medioevo. L’Eritrea ha contribuito ampiamente a rendere ancora più devastante questo sanguinoso conflitto.
Intanto gli aiuti umanitari continuano a arrivare con il contagocce. Ieri è stato distrutto anche il ponte sul fiume Tekeze, sull’asse principale per i convogli di aiuti alimentari. L’UNHCR ha fatto sapere che la situazione umanitaria nella regione resta preoccupante. Tommy Thompson, coordinatore per le emergenze del World Food Programme nel Tigray, tramite telefono satellitare ha detto che i combattimenti continuano in diverse “zone calde” e che 35 collaboratori sono stati bloccati durante le ostilità. “Siamo stati fermi solamente per 48 ore, poi abbiamo ripreso le attività nel nord-ovest questa mattina”.
Thompson spera che nei prossimi giorni si possa aprire un ponte aereo per accelerare la distribuzioni di alimentari alla popolazione stremata. “Molte persone sono morte, altre stanno morendo e tante altre moriranno se gli aiuti tarderanno a arrivare”.
E Josep Borrell, alto rappresentante dell’Unione Europea per gli affari esteri e la politica di sicurezza, ha precisato che un cessate il fuoco credibile significa portare quanto prima gli aiuti necessari a milioni di bambini, donne e uomini. E ha aggiunto con netto riferimento al governo: “Durante una tregua non si distruggono infrastrutture critiche o si toglie la corrente”.
Il primo ministro Abiy Ahmed, al potere dal 2018 e insignito del Premio Nobel per la Pace 2019, non ha certamente guadagnato prestigio con la guerra in Tigray. E ricordiamo che il nord non è l’unica zona di conflitto in Etiopia. Basti pensare alle aggressioni in Oromia, specie nella parte occidentale, teatro da oltre tre anni di scontri tra le forze del governo federale e regionale e l’Oromo Liberation Army, gruppo armato staccatosi dal partito di opposizione politica, l‘Oromo Liberation Front, nel 2019.
O i continui scontri tra oromo, il maggiore gruppo etnico, e gli amhara, che rappresentano il secondo per numero. Un altro conflitto poco menzionato dalla stampa internazionale, si consuma da anni nella parte occidentale dell’Etiopia, nella regione di Benishangul-Gumuz, specie nella zona di Metekel, molto ambita dagli amhara per la terra fertile e i giacimenti di bauxite. Negli ultimi mesi sono morti non pochi civili e molti residenti sono stati costretti a lasciare le proprie case.
E ancora le dispute di confine tra Etiopia e Sudan per la fertile piana di al-Fashqa. L’area si estende su 12 mila chilometri quadrati e si trova tra due fiumi, da un lato confina con il nord della regione Amhara e il Tigray, dall’altra con lo stato sudanese Gedaref.
Il conflitto si è inasprito dallo scorso dicembre con l’infiammarsi della guerra in Tigray. Da allora sono in atto continui combattimenti tra le forze sudanesi e quelle di Addis Ababa, al cui fianco troviamo anche le milizie amhara e, naturalmente, anche le truppe eritree.
E infine, ma non per ultimo, non si attenuano le tensioni tra Etiopia con Sudan e Egitto per il Grand Ethiopian Renaissance Dam (GERD) sul Nilo Azzurro.
Cornelia I. Toelgyes
corneliacit@hotmail.it
@cotoelgyes
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