Costantino Muscau
24 Giugno 2021
Sono 24 gli atleti del Continente nero che sfuggiti alla fame, alla guerra, alle persecuzioni hanno trovato “ospitalità” sulle colline di Ngong, lungo la Rift Valley, a sudovest di Nairobi.
Qui si allenano, nonostante le difficoltà legate alla pandemia da Covid, e cullano il sogno di competere nei XXXII GIOCHI OLIMPICI in programma dal 23 luglio all’8 agosto in Giappone. Corrono, corrono sulle colline, anche se sanno che pochi saranno gli “eletti” per Tokyo. Provengono dal Sudan del Sud, dall’Etiopia, dalla Somalia, dalla Repubblica democratica del Congo…
Come Anjelina Nadai Lohalith, 28 anni, specialista dei 1500 metri. O come l’altra mezzofondista Rose Nathike Lokonyen, 26 anni. Entrambe hanno storie drammaticamente simili. Entrambe rappresentano la Squadra degli Olimpici Rifugiati nelle competizioni internazionali.
“Nel 2001, avevo appena 8 anni, scappai con uno zio e altre persone, dal mio villaggio nel Sud del Sudan – ha raccontato a Worldathletics.org – Nella notte erano arrivati dei soldati che sparavano e uccidevano. Ci nascondemmo a lungo nel bush, non avevamo nulla. Non potevamo tornare indietro perché avevano minato i campi. Ci salvarono dopo mesi le Nazioni Unite, che ci trasportarono a Kakuma, dove ci stabilimmo nel 2002″.
Kakuma con quasi 200 mila ospiti è il più grande campo di rifugiati nel mondo assieme a quello, pure immenso di Dadaab, col confine con la Somalia.
“Speravo che i miei genitori mi raggiungessero subito dopo. Li rivedo adesso dopo 20 anni. E -continua Anjelina – Sanno che ho un figlio, che ho studiato, che ho imparato l’inglese andando a scuola e leggendo tanto, ma ignorano che ho sfondato nell’Atletica e girato per tanti Paesi. Grazie a Tegla Loroupe”.
“Anche io a 8 anni dovetti fuggire con la mia famiglia dal villaggio natale in Sud Sudan e trovare accoglienza a Kakuma, Nel 2015 ho cominciato a praticare l’atletica. Grazie al Centro di allenamento e addestramento di Ngong messo in piedi da Tegla Laroupe”.
Tegla Laroupe, 48 anni, kenyana, non ha bisogno di presentazione come atleta: è la ex detentrice del record mondiale della maratona e tre volte dominatrice della mezza maratona, prima africana a vincere la Maratona di New York. Insomma, un mito!
Non è da meno, però, la sua la sua “mission” nella società civile: premiata come donna dell’anno nel 2016 dall’Onu, ha deciso di servirsi della sua celebrità per difendere la causa dei rifugiati attraverso lo sport e attraverso la sua Peace Foundation.
Laroupe era andata nel 2015 al Kakuma Camp come membro della Fondazione per selezionare potenziali atleti in grado di partecipare alle Olimpiadi del 2016 a Rio, in Brasile. E a quei Giochi fu proprio Rose la portabandiera del primo team olimpico dei rifugiati. Quasi certamente lo sarà anche stavolta, a Tokyo. Ancora più immensa è la gioia di Anjelina, selezionata per la seconda volta (dopo Rio) fra i pochi runners che sicuramente potranno competere in Giappone.
“E pensare che nel 2015 non sapevo niente di sport né di Tegla. Sapevo solo correre…dovunque andassi correvo…Ero un’atleta nata, ma non ne ero consapevole – è il ricordo di Anjelina – Grazie allo sport ho girato il mondo, ho intessuto nuove amicizie”.
“L’attività sportiva ha dato speranza a me e ai rifugiati del mondo intero – ha sottolineato Rose -. Ha dimostrato che noi siamo esseri umani come tutti gli altri e possiamo competere con tutti e come tutti”.
“Lo sport unisce, non ha colori politici – è il commento di Tegla Laroupe – Troppo spesso sui rifugiati circolano pregiudizi. Invece da loro, dalle loro esperienze, dalla loro capacità di reagire, c’è da imparare tanto”. Anche se si arriva ultimi. Come era successo ad Anjelina, ai Giochi di Rio de Janeiro. Mai come in queste occasioni, però, l’importante è partecipare, non vincere.
Costantino Muscau
muskost@gmail.com
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