20 giugno 2021
Le informazioni sulla recente crisi israelo-palestinese che sono arrivate all’opinione pubblica internazionale hanno per lo più ricalcato temi già visti tante volte, dando una fallace sensazione di “déjà vu”. Da un lato la tradizionale riaffermazione del diritto dello Stato di Israele alla sua esistenza, e dall’altro quella del diritto dei Palestinesi a vivere nella loro terra. Da un lato la pioggia di missili da Gaza su Israele, dall’altro la pioggia di bombe da Israele su Gaza.
Ma in realtà ci sono questa volta delle novità che tendono ad aggravare ulteriormente un conflitto già drammatico e modificarne la natura.
La crisi è partita da una serie di provocazioni delle autorità israeliane verso i palestinesi dei Territori Occupati e di Gerusalemme: l’esproprio di case palestinesi nel quartiere di Sheik Jarrah, le inedite misure restrittive alla Porta di Damasco in occasione della festa musulmana dell’Aïd, la mano libera lasciata a incursioni di bande di estremisti ebraici, le violenti azioni repressive della polizia israeliana sulla spianata delle Moschee ed il triplice ingresso della stessa polizia nella Moschea di el Aksa, con l’impiego di “stun bombs”. Queste provocazioni miravano a rendere impossibile (almeno per il momento) la formazione da parte di Yair Lapid di un Governo alternativo a quello di Benyamin Netanyahu, che avrebbe dovuto contare sulla partecipazione ed i voti di un piccolo partito arabo, il RAAB. Ma all’opinione pubblica internazionale sono sostanzialmente arrivate solo le solite e retoriche rivendicazioni di principio, i missili e le bombe.
In realtà la crisi ha prodotto gravi danni su di un altro fronte di cui meno si è parlato: oltre ai palestinesi dei Territori Occupati, si sono per la prima volta ribellati i cittadini israeliani di origine araba (circa due milioni) e si è creata, questa volta all’interno di Israele stesso una situazione di grave guerra civile. Gruppi di cittadini arabi inferociti hanno aggredito passanti israeliani, mentre gruppi di estremisti israeliani hanno fatto lo stesso a passanti israeliani di etnia araba. Sono state bruciate delle abitazioni, delle Moschee e delle Sinagoghe. Su qualche giornale ho visto la parola pogrom, probabilmente per il momento esagerata. E’ la prima volta che succede, almeno su questa scala, e pone nuovi problemi, sempre più difficili da affrontare.
Questa tragica novità accelera infatti l’emersione del problema della forma e del futuro dello Stato israeliano. Diventata intenzionalmente impossibile la soluzione dei due Stati (tenuta in piedi ipocritamente per non dover affrontare la realtà), rimane solamente la soluzione del singolo Stato. Israele era infatti stato però dichiarato “Stato Nazionale degli Ebrei” con un voto della Knesset del 19 luglio 2018. Fin dall’inizio si disse che tale Stato poteva essere ebraico, o poteva essere democratico, ma non entrambi. Ecco che la nuova crisi ha ora dato sostanza concreta a questa fondamentale contraddizione.
Lo scontro tra israeliani e palestinesi non sembra quindi avere più carattere territoriale, ma riguardare i diritti – politici, economici e sociali – delle due conviventi comunità, e dover essere risolto da esse stesse. Ma occorre tener conto che le due comunità sono, esse stesse, profondamente cambiate durante gli ultimi decenni.
Tra gli israeliani il ricambio generazionale ha portato al potere nuove classi di età che hanno dimenticato i valori dei padri e dei nonni, fondatori di Israele. Inoltre la forte immigrazione dalla Russia, dopo il crollo dell’Unione Sovietica, ha visto l’arrivo di nuovi israeliani con lo scarso senso della democrazia ed i pregiudizi razziali prevalenti nelle regioni di provenienza.
Senza contare che i prolifici ortodossi religiosi (haredim) stanno modificano le dinamiche demografiche all’interno della comunità ebraica. Tutte novità che negli ultimi vent’anni Benjamin Netanyahu, e altre parti politiche, hanno sfruttato in maniera populista e senza scrupoli per radicalizzare il conflitto politico e dipingere tutti gli arabi come terroristi.
Ma anche i palestinesi sono cambiati, e non solo per un analogo ricambio generazionale. Soprattutto per il prevalere di Hamas sull’OLP, che pur non ha potuto essere validato politicamente, per il ripetuto rinvio delle elezioni. Ciò significa il passaggio dal nazionalismo laico dell’OLP a quello confessionale di Hamas, che è una costola dei Fratelli Musulmani, o della Jihad Islamica.
Come sopra accennato, per i palestinesi lo scontro è oggi in larga parte sui diritti, e leggo che le loro reazioni sarebbero state influenzate, e rafforzate, anche dall’esempio del movimento americano “Black Lives Matter”.
Ormai il problema non è limitato ai palestinesi dei Territori Occupati, ma a tutti i palestinesi soggetti ad Israele: quelli che sono cittadini dello Stato ebraico, quelli di Gerusalemme e dei Territori occupati, quelli di Gaza. Su questa situazione si innesta l’approvazione da parte della Knesset del nuovo Governo – negoziato dal moderato Yair Lapid ma guidato nella sua prima fase dal nazionalista Naftali Bennet – che segna, apparentemente, la fine dell’era Netanyahu.
Si tratta di un Governo doppiamente debole, sia per la sua esilissima maggioranza parlamentare, che per la estrema etereogenità della sua composizione, che va dai nazionalisti più estremi, ai centristi laici, e contiene anche la rappresentanza di un partito arabo, RAAB, vicini ai Fratelli Musulmani. Ci sono quindi molti dubbi sulla possibile durata di siffatta alleanza la quale, non potendo affrontare problemi troppo spinosi, finirebbe per concentrarsi su questioni meno controverse, quali la lotta alla pandemia ed il rilancio dell’economia.
Ma proprio perché non sembra trattarsi di un governo “di parte” esso potrebbe avviarsi verso percorsi meno ideologizzati. Il nuovo Primo Ministro, Naftali Bennet – che pure è stato uno dei leaders dei coloni in Cisgiordania, e contrarissimo alla soluzione dei due Stati – ha affermato “Questo Governo lavorerà per tutta la collettività israeliana – religiosa, secolare, ultra ortodossa, araba – senza eccezione e in maniera unitaria. Lavoreremo insieme in uno spirito di partenariato, ed ho fiducia che avremo successo” .
In concreto il partito arabo RAAB ha avuto assicurazioni di importanti stanziamenti per ridurre le differenze di sviluppo tra le varie comunità nei prossimi anni, fermare le demolizioni di costruzioni prive di permessi nelle zone a popolazione araba, ottenere il riconoscimento di tre insediamenti beduini nel deserto del Negev, migliorare il trasporto pubblico, e migliorare la tutela dell’ordine pubblico nelle comunità arabe, affette da problemi di commercio di droga e di violenza.
Se veramente questo Governo avesse la forza politica necessaria per avviarsi su questa strada, si tratterebbe di “confidence building measures” che potrebbero dare un contributo sostanziale a diminuire l’odio e la paura in entrambe le comunità che costituiscono la popolazione di Israele. Una linea del genere potrebbe effettivamente contare sulle componenti più moderate che pur esistono nella popolazione ebraica ed araba di Israele nonché, ed è importante, dell’opinione della comunità ebraica americana, che sembra evolversi in senso più moderato e liberale. È inoltre sintomatico che il Presidente Biden abbia fatto una telefonata di felicitazioni a Naftali Bennet solamente tre ore dopo il suo insediamento: quando invece il Presidente Biden si insediò a Washington, lasciò passare tre settimane prima di chiamare Benjamin Netanyahu.
Ma è vero anche che la estrema fragilità dell’alleanza guidata da Naftali Bennet la rende molto vulnerabile a provocazioni provenienti da elementi più estremisti, sia israeliani che arabi.
Senza contare che sulla nuova crisi israelo-palestinese si innestano una serie di pericolosi attori esterni: la Turchia che mira a contrastare all’Arabia Saudita la leadership della comunità islamica internazionale e a ricreare la grande sfera di influenza dell’Impero Ottomano, la Russia che mira ad allargare a sua presenza nei “mari caldi” non solo mediterranei, ma anche del Mar Rosso e dell’Oceano Indiano, la Cina che, attraverso il nuovo accordo ventennale con l’Iran potrebbe voler prolungare l’influenza della sua Via delle Seta nel ventre molle del corridoio sciita attraverso l’Iraq, la Siria ed il Libano, attualmente in saldo al miglior offerente.
Con tutti questi limiti la nuova coalizione, ed il nuovo Governo israeliano. rimangono una novità molto importante.
Francesco Aloisi de Larderel
Francesco Aloisi de Larderel, diplomatico di carriera (che ha lasciato nel 2004)
ha ricoperto incarichi in Canadà, Svizzera e Cuba e più recentemente in Egitto,
dove è stato ambasciatore dal 1996 al 2001.
E’ stato Vice Direttore Generale degli Affari Economici e vice Sherpa ai vertici dei Sette di Parigi,
Londra, Houston e Monaco di Baviera.
Ha lavorato a lungo alla Cooperazione allo Sviluppo,
dove ha ricoperto la carica di Direttore Generale dal 1993 al 1996.
E’ stato anche Direttore Generale per la Promozione e la Cooperazione Culturale dal 2001 al 2004.
Dal 2004 è membro del Centro Studi Diplomatici.
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questo articolo è vergognoso, mistificatore. Sono anni che vi leggo, da QUESTO MOMENTO MAI PIU
Grazie mille. L'articolo è un'opinione e se non le piacciono le persone che non la pensano come lei ci dispiace molto ma temo che non possiamo farci molto.