Cornelia I. Toelgyes
30 maggio 2021
“Non toccate l’Etiopia” è lo slogano che sabato ha risuonato nelle piazze e nelle strade della capitale Addis Ababa durante una manifestazione per protestare contro le sanzioni USA. Ovviamente i partecipanti alla protesta erano tutti simpatizzanti del governo di Abiy Ahmed, Premio Nobel per la Pace 2019.
Alla dimostrazione c’erano anche alti funzionari governativi. Uno di loro ha affermato che non desiderano interferenze. “Soluzioni africane per problemi africani”. Peccato che abbia dimenticato che Abiy non ha nemmeno accettato la mediazione dell’Unione Africana. Tre ex presidenti, Ellen Johnson-Sirleaf ( Liberia), Joaquim Chissano (Mozambico) e Kgalema Motlanthe (Sudafrica), inviati speciali dell’allora presidente di turno dell’UA, Cyril Ramaphosa, sono stati liquidati dal primo ministro con un nulla di fatto alla fine di novembre.
Migliaia di etiopi hanno voluto dimostrare il loro disappunto all’amministrazione di Joe Biden per le misure adottate nei confronti delle autorità etiopiche per le continue e insistenti violazioni dei diritti umani nel Tigray, la regione più a nord del Paese, dove si sta consumando un sanguinoso conflitto dal 4 novembre scorso.
Washington ha imposto restrizioni di visto a alti funzionari etiopici e eritrei; sanzioni finanziarie sono in arrivo, in particolare nel settore della sicurezza nonché nel sostegno economico.
Malgrado le misure già prese e le altre annunciate dell’amministrazione di Biden, gli orrori si susseguono nel Tigray e i racconti che arrivano a contagocce in occidente sono a dir poco allucinanti.
Radio France International (RFI), in un suo reportage di oggi, ha documentato il massacro di Goda, commesso da soldati eritrei, alleati del governo etiopico in questo conflitto. La carneficina risale al dicembre scorso, ma solo ora sono emersi alcuni dettagli.
Hagos, un uomo di 66 anni anni, ha raccontato ai reporter: “Hanno dapprima saccheggiato la mia casa, poi hanno portato via i miei figli, ammazzati nella fabbrica di bibite insieme a altri, in tutto 19 giovani. Hanno distrutto lo stabilimento, che un tempo impiegava 300 persone. Per due settimane ci hanno vietato di sotterrare i corpi dei nostri cari. Poi li abbiamo seppelliti là, le salme erano in fase di decomposizione avanzata. Non potrò mai dimenticare, mai perdonare. Non guardo nemmeno più in direzione dell’ Eritrea”.
Nessuno degli abitanti crede che venga fatta giustizia, eppure qualcuno ha la remota speranza che il sito, un giorno, diventi un memorial.
Dopo un dettagliato reportage della CNN, invece, sono stati liberati centinaia di uomini, arrestati all’inizio della settimana scorsa a Shire, nel nord del Tigray, da militari eritrei e etiopici.
Alcuni testimoni hanno raccontato che durante la razzia dei soldati, gli uomini sono stati picchiati, maltrattati. Un operatore umanitario ha specificato ai reporter americani che gli arrestati sono stati accusati dalle truppe di essere membri del TPLF (acronimo inglese per “Fronte Popolare di Liberazione del Tigray). Sono persino entrati nelle tende di alcuni sfollati urlando: “Vediamo se ora gli americani vi salveranno”.
“Impossibile capire chi appartiene al partito TPLF e chi no, hanno detto gli uomini: si è trattato di un raid indiscriminato, hanno rastrellato tutti i maschi che hanno trovato.
Siamo terrorizzati, appena vediamo qualcuno che indossa un’uniforme scappiamo”, ha raccontato un testimone.
La CNN ha poi inviato il suo rapporto martedì scorso al senatore Chris Coons, che è stato in Etiopia lo scorso marzo come inviato speciale del presidente Joe Biden. Coons ha riferito il fatto durante un’udienza alla Commissione esteri del Senato.
Venerdì mattina un portavoce del Dipartimento di Stato ha accolto favorevolmente il rilascio di queste persone. Contemporaneamente ha ricordato alle autorità di Addis Ababa che è suo dovere proteggere i civili, secondo gli accordi umanitari internazionali. Per l’ennesima volta ha poi sottolineato che Asmara deve ritirare le proprie truppe dall’Etiopia. E infine ha aggiunto: “Le atrocità commesse sono inaccettabili”.
Babar Baloch, un portavoce dell’UNHCR ha fatto sapere venerdì scorso che altri prigionieri dovrebbero essere rilasciati nei prossimi giorni.
Yemane Ghebremeskel, ministro dell’informazione del regime di Asmara nega ovviamente tutte le accuse, compreso il rapporto della CNN.
Il conflitto è arrivato al settimo mese. In questo periodo sono state uccise migliaia di persone da tutte le parti in causa: truppe governative etiopiche con l’appoggio di quelle eritree e amhara da un lato e quelle del TPLF dall’altro.
Il Tigray è allo stremo. E per sopravvivere, molti minori sono costretti a chiedere l’elemosina lungo le strade della regione. La maggior parte dei negozi sono chiusi, è sempre più difficile reperire il cibo e giornalmente aumentano i morti di fame, come ha evidenziato anche Paolo Lambruschi su Avvenire.
Secondo le ultime informazione dell’ONU, quasi il 90 percento della popolazione del Tigray necessita di aiuti umanitari. Oltre all’organizzazione ONU sono attive altre 32 ONG, rispetto alle 17 che vi operavano prima della guerra. Gli operatori che cercano di portare aiuti sono 1.850, ma non bastano. I bisogni aumentano di giorno in giorno e i fondi disponibili non sono sufficienti.
La carestia è alle porte. Molti contadini sono stati uccisi, altri sono sfollati. Il bestiame dei pochi rimasti è stato abbattuto o requisito, gli attrezzi agricoli distrutti. Il prossimo raccolto si annuncia catastrofico.
I casi di malnutrizione riscontrati nei bambini sotto i 5 anni sono in continuo aumento. Basti pensare che lo scorso febbraio ne erano stati identificati 184 mila. Secondo gli operatori umanitari solo un arresto immediato del conflitto potrebbe non peggiorare la già grave situazione.
E poche ore fa la redazione di Africa ExPress è stata informata della morte di Negasi Kidane, responsabile dell’ufficio del CISP (acronimo per Comitato Internazionale per lo Sviluppo dei Popoli) a Adigrat. Negasi è stato casualmente coinvolto in un conflitto a fuoco mentre si recava al municipio per richiedere un’autorizzazione per viaggiare.
Nel Tigray si muore così, senza preavviso.
Cornelia I. Toelgyes
corneliacit@hotmail.it
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