Cornelia I. Toelgyes
21 marzo 2021
A Makallé, il capoluogo del Tigray, regione dell’Etiopia dove dallo scorse novembre si consuma un sanguinoso conflitto, la calma è solo apparente.
In base ai rapporti degli operatori della Croce Rossa e alle testimonianze di parenti, ogni notte, malgrado il coprifuoco sempre in vigore, qualcuno viene ammazzato. I corpi vengono portati all’ospedale, crivellati da pallottole o con profonde ferite da coltello.
Secondo quanto riferisce The New York Times, l’altro giorno un giovane è entrato in un bar e per errore ha toccato un argomento scottante discutendo con un soldato dell’esercito regolare etiopico. Alcuni amici hanno riferito che quattro militari l’hanno poi seguito fino a casa, picchiandolo a morte con bottiglie di birra. Dopo essere stato identificato come il 26 enne Getachew Tewolde, i soldati federali hanno affermato che si trattava di un uomo della “giunta” (eufemismo per uomo del TPLF). Ma gli amici del poveraccio hanno affermato che era un semplice operaio, non era affatto un personaggio politico.
E ancora, dopo un conflitto a fuoco in una città non lontana dal capoluogo, tra le forze etiopiche e combattenti di una milizia locale, quando i militari regolari sono tornati a recuperare i corpi dei loro compagni, hanno sparato indiscriminatamente nelle case che si trovavano nelle vicinanze. Certo, come sempre, la popolazione civile paga il prezzo più altro in questi casi.
Chi riesce a raggiungere l’ospedale più vicino, è felice di essere ancora vivo; i più hanno perso madre, padre, fratelli, sorelle durante queste scorribande illecite dell’esercito di Addis Ababa.
Sono passati oltre quattro mesi da quando il primo ministro etiopico, Abiy Ahmed, al potere dal 2018 e Premio Nobel per la Pace 2019, ha sguinzagliato il suo esercito nel Tigray per catturare i leader del TPLF (acronimo inglese per Tigray People’s Liberation Front, partito al potere nella regione n.d.r.), che per mesi hanno sfidato l’autorità del governo centrale e infine hanno anche attaccato una base militare di Addis Ababa a Makallé. Ma ciò che “doveva essere un blitz” delle forze armate di Abiy, si è trasformato in un orrendo conflitto, in una carneficina: violazioni dei diritti umani, abusi e violenze sessuali nei confronti delle donne, pulizia etnica, massacri, torture e si teme che la fame, la mancanza di accesso dei convogli nelle zone di guerra, venga utilizzata come vera e propria arma da guerra.
Infatti, proprio a Makallè molti sono convinti che non sono i leader del TPLF a essere presi di mira dal governo centrale, bensì la popolazione. E ne sono testimoni i migliaia di sfollati che raggiungono le città dalle campagne. Affamati, dimagriti, disidratati, sfiniti, raccontano ciò che hanno dovuto subire in questi mesi di guerra civile da parte dell’esercito di Addis Ababa e i suoi alleati.
Naturalmente Abiy respinge qualsiasi accusa, ma l’ONU ha precisato che tutte le fazioni in causa, compreso il TPLF, sono co-responsabili delle atrocità commesse, anche se si punta il dito per lo più sulle forze governative etiopiche e i suoi alleati (milizie etniche della vicina regione Amhara e le truppe di Isaias Afewerki, dittatore eritreo, ex feroce nemico dell’Etiopia, ma oggi fedele alleato di Abiy).
Il presidente a interim del Tigray, Mulu Nega, nominato dal governo centrale, si è insediato in un albergo del capoluogo e l’entrata è sorvegliata a vista dai militari federali.
La redazione di Africa ExPress è in possesso di un filmato che preferiamo non pubblicare per ragioni di opportunità e rispetto dei morti e dei loro parenti: mostra i cadaveri di molti giovani ammazzati in piccoli villaggi del Tigray. E una nostra lettrice, residente da anni negli Stati Uniti ci ha scritto: “Sono in lacrime. Ad Axum hanno ammazzato il figlio di un cugino di mio padre. Un bellissimo giovane, non ha mai fatto del male a nessuno. Sono venuti a prenderlo a casa sua. Ammazzato insieme a altri e non li hanno nemmeno seppelliti”.
Centinaia di innocenti sono stati uccisi senza pietà e senza ragione alcuna. Nel Tigray sono stati commessi crimini di guerra efferati, terrificanti. Oltre mezzo milione di persone sono scappate dalle loro case, 60mila hanno cercato protezione in Sudan.
Quasi il 70 per cento su 106 centri sanitari sono stati chiusi, solo il 13 per cento funziona normalmente. Lentamente emergono le atrocità commesse, malgrado il blackout delle comunicazioni imposto da Addis Ababa.
La troupe di Sky-News ha raccontato che da quando è partita dal capoluogo del Tigray ha sempre avuto alle calcagna truppe dell’esercito regolare, che si sono però dileguati quando i reporter sono arrivati in prossimità della città di Gijet, nel sud della regione.
Nel villaggio di Mayweini i residenti hanno confidato ai giornalisti che a metà febbraio le truppe eritree hanno ucciso un ottantina di persone, forse anche di più; alcuni ammazzati con pallottole, altri con coltelli, dopo averli derubati dei loro beni. Non si esclude a questo punto che il governo centrale non sia in grado o non abbia l’autorità di controllare tutto il territorio della regione.
Michelle Bachelet, capo dell’Ufficio dell’ONU per i Diritti umani, vuole aprire un’inchiesta congiunta (Etiopia –ONU) su quanto è successo nel Tigray, dove si suppone siano stati commessi crimini di guerra, come ha affermato il segretario di Stato di Washington, Antony Blinken, accuse prontamente negate dal governo di Addis Ababa.
Eppure ora il ministro degli Esteri etiopico, Demeke Mekonnen, ha detto di essere pronto a collaborare.
Nel frattempo peggiora la situazione nella città di Scirè, dove attualmente vivono 200mila persone in campi improvvisati, per lo più donne e minori. Alcuni riportano di essere stati costretti a lasciare le proprie abitazioni da gruppi miliziani Amhara. Il governo regionale si giustifica dicendo che tali aree erano state sottratte con la forza da TPLF quando è arrivato al potere negli anni Novanta.
Cornelia I. Toelgyes
corneliacit@hotmail.it
@cotoelgyes
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