dal sito Nigrizia.it
Luca Manes
18 marzo 2021
La sentenza emessa ieri dal tribunale di Milano al termine di un processo durato tre anni assolve pienamente Eni, Shell e tutti gli imputati accusati di aver pagato una tangente di oltre 1 miliardo di dollari al governo nigeriano per aggiudicarsi i diritti di sfruttamento del ricco giacimento petrolifero
L’affare Opl-245 non è stato macchiato dalla corruzione. La sentenza di primo grado del processo a Eni, Shell, 13 tra manager apicali delle due società, intermediari e l’ex ministro del petrolio della Nigeria Dan Etete certifica questa verità giudiziaria, dal momento che tutti gli imputati sono stati assolti perché il “fatto non sussiste”.
Dopo un processo durato tre anni, la settima sezione penale del tribunale di Milano, presieduta da Marco Tremolada, ha emesso il 17 marzo una sentenza che sconfessa l’impalcatura accusatoria messa in piedi dai pubblici ministeri Fabio De Pasquale e Sergio Spadaro. I pm erano convinti che la licenza del ricco giacimento al largo delle coste nigeriane fosse stata ottenuta pagando da parte di Eni e Shell una delle tangenti più corpose della storia: 1,092 miliardi di dollari.
Un fiume di denaro che è solo transitato per i conti del governo federali di Abuja, ma che poi è arrivato nella disponibilità del vero proprietario della licenza, la società Malabu dell’ex ministro del petrolio ai tempi della giunta militare capeggiata da Sani Abacha, l’anche lui assolto Dan Etete. Come Etete abbia usato il denaro, distribuito a politici nigeriani di altissimo rango, non è stato considerato dai giudici milanesi un atto contrario alla legge.
Se esulta il gotha dei penalisti italiani, chiamato a difendere Eni, Shell e i loro manager, masticano amaro le organizzazioni della società civile internazionale che avevano dato la stura alle indagini nell’ormai lontano 2013 presentando un esposto alla procura di Milano. Deluse Re:Common e le inglesi Global Witness e The Corner House, che si augurano che un secondo grado di giudizio possa ribaltare questa prima sentenza.
Scontato quindi che la saga Opl-245 avrà ancora altri capitoli. D’altronde questa complessa vicenda parte da molto lontano, addirittura 23 anni fa.
La licenza è stata infatti assegnata per la prima volta – senza alcuna gara – il 29 aprile 1998 dall’allora ministro del petrolio Dan Etete alla Malabu Oil and Gas, costituita cinque giorni prima dell’aggiudicazione. Nella Malabu figuravano lo stesso ministro e uno dei figli del dittatore Abacha. Etete cerca di coinvolgere la Shell come partner tecnico nell’operazione.
Nel 2002, alla Malabu, però, viene ritirata la licenza dal governo Obasanjo e assegnata tramite una gara alla Shell, che nel 2003 versa un bonus di firma di 210 milioni di dollari e investe alcune centinaia di milioni di dollari nell’esplorazione del blocco. Opl-245 – sito offshore al largo delle coste nigeriane nel Golfo di Guinea – viene visto come altamente strategico per spostare finalmente le operazioni fuori dal Delta del Niger segnato da conflitti sociali, rischi per la sicurezza e ricavi calanti dai pozzi in sfruttamento.
Dopo numerosi casi legali intentati da Etete nelle corti nigeriane, nel 2006 il ministro della giustizia Bayo Ojo riassegna il blocco alla Malabu. In risposta, nel 2007 la Shell muove un arbitrato internazionale contro la Nigeria all’International centre for settlement of investment disputes della Banca mondiale per fare pressioni con la richiesta di danni miliardari e cercare così di riottenere la licenza contesa.
Sempre nel 2007, in Francia, Etete viene condannato per riciclaggio dei proventi della tangente dell’affare Bonny Island sempre in Nigeria, ma non molla e si mette alla ricerca di un nuovo compratore. Così contatta anche l’Eni.
I rapporti con il cane a sei zampe si stringono alla fine del 2009, quando Eni comunica il suo interesse a trattare. Nel febbraio 2010 la società stringe un accordo di esclusività e confidenzialità con il mediatore nigeriano Emeka Obi, che afferma di rappresentare la Malabu. Nel giugno 2010, non viene accettata una prima offerta per il 40% della licenza.
Nel frattempo, il presidente Nigeriano Yar’Adua muore e il suo vice, Goodluck Jonathan, prende la guida del paese. Il nuovo ministro del petrolio, Diezani Madueke, conferma alla Malabu il controllo del 100 per cento della licenza. A fine ottobre 2010, Eni, che si coordina con Shell, intavola una nuova offerta per l’intero blocco, che però fallisce.
A quel punto nel negoziato subentra il nuovo ministro della giustizia Adoke Bello, estromettendo i presunti intermediari che avevano agito nella trattativa diretta. Viene così elaborato uno schema tripartito con cui le società pagheranno il governo, che poi salderà la Malabu di Etete, mentre Shell ritirerà l’arbitrato internazionale.
Alla fine del 2010 il figlio di Abacha si rifà vivo e muove una causa legale contro Etete che lo aveva estromesso da tempo. Nonostante le obiezioni mosse da alcune agenzie tecniche del governo, l’accordo viene raggiunto il 29 aprile 2011 sul prezzo di 1,3 miliardi di dollari, incluso il bonus di firma già pagato da Shell. Eni sborsa quasi un miliardo di dollari. Shell la cifra rimanente.
Solo 200 milioni rimarranno nella disponibilità dell’esecutivo nigeriano, tutto il resto transiterà per i conti federali presso la filiale londinese della JP Morgan, finendo poi altrove.
Motivo per cui l’avvocato Lucio Lucia, in rappresentanza della Nigeria, aveva chiesto una provvisionale di 1,1 miliardi di danni, riservandosi in caso di condanna definitiva di adire ad un giudice civile per la piena richiesta di danni, che secondo i consulenti tecnici intervenuti nel processo potrebbero ammontare a 3,5 miliardi di dollari.
Allo stesso tempo, la Nigeria ha mosso diverse cause civili di asset recovery per recuperare il miliardo e 100 milioni non finito nelle casse dello Stato. Prima è riuscita a farsi assegnare da un giudice inglese 85 milioni di dollari sequestrati dalla procura di Milano a Londra. Quindi ha citato la banca JP Morgan per danni di 875 milioni di dollari. Il caso è stato accettato dall’Alta Corte di Londra e si svolgerà a fine 2021.
Va ricordato che altri due imputati, gli intermediari Gianluca Di Nardo ed Emeka Obi, coinvolti nell’affare Opl-245, avevano scelto il rito abbreviato nel corso dell’udienza preliminare del 2017 ed erano sono stati condannati in primo grado dal gip Giuseppina Barbara a 4 anni di reclusione ciascuno e alla confisca di 112 milioni di dollari, già sequestrati in Svizzera su richiesta della procura di Milano. La sentenza del giudice Barbara si era basata solo sulle prove raccolte dalla pubblica accusa nel corso dell’indagine fino all’udienza preliminare.
Se in Italia si aspettano entro 90 giorni le motivazioni della sentenza di primo grado, in Nigeria sono a processo con accuse di corruzione, frode e riciclaggio i politici nigeriani allora al potere coinvolti nell’affare, in primis l’ex ministro della giustizia Mohammed Adoke Bello, arrestato ed estradato da Dubai all’inizio del 2020. I tre tronconi processuali nigeriani coinvolgono anche manager locali di Eni e Shell e mediatori nigeriani, nonché Dan Etete.
In Olanda invece è ancora in corso un’indagine penale sul caso. Le accuse a Shell vanno ben oltre la corruzione internazionale. Una decisione sul rinvio a giudizio potrebbe arrivare entro l’anno. Ma un altro filone potrebbe aprirsi anche in Italia, perché potrebbe materializzarsi una richiesta di rinvio a giudizio sul presunto finto complotto architettato da legali esterni di Eni e alcuni manager interni per depistare l’indagine sull’Opl-245.
Luca Manes per Nigrizia
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