Speciale per Africa ExPress
Elisabetta Crisponi
6 Marzo 2021
Torniamo a parlare di Mauritania segnalando la lettura di un libro: “Hartani, catene invisibili” di Lucia Berardi.
La trama riguarda la storia di una giornalista torinese, Fosca, impegnata a realizzare un reportage in Mauritania con un famoso fotografo. La reporter viaggia nel deserto con un gruppo d’italiani, guidati da un suo ex professore e amico, cui si unisce un affascinante paleontologo francese. Ma durante il soggiorno africano, Fosca s’imbatte nel problema della schiavitù, realtà nascosta ma ancora radicata in quel Paese, nonostante la legge lo vieti. Inizia così un’indagine che la protagonista porta avanti da sola, prima nella capitale, poi nella regione dell’Adrar, sospettando un traffico di donne che arriva fino alla Costa Atlantica. Scorrendo le pagine, si assiste a un crescendo di tensione che culminerà in diversi colpi di scena.
Abbiamo intervistato l’autrice.
Partiamo dal titolo. Cosa significa Hartani? “L’ Hartani è chi sta nella condizione di schiavo affrancato, ossia reso libero. Ma nella società mauritana, nonostante la schiavitù sia stata ufficialmente abolita nel 1981, si può dire non esista differenza tra uno schiavo (Abd) e un affrancato (Hartani). L’origine della persona determina il suo status sociale a vita. Molte persone sono schiavi domestici, proprietà di una famiglia da generazioni.”
Come nasce l’idea del libro? “Nel 2018 ho fatto un viaggio in Mauritania e ne sono rimasta molto affascinata. Quando mi sono recata nel Paese, e durante la mia permanenza, ignoravo il problema della schiavitù. Al mio rientro un forte interesse, e un istinto di approfondimento, mi hanno fatto scoprire la vera realtà. In particolare, la tesi di dottorato di Valentina Picco (Università di Bergamo, 2012) mi ha suggerito una prospettiva diversa e sconvolgente sul Paese visitato, ed è stata una preziosa fonte d’ispirazione”.
Perché ha sentito il bisogno di pubblicare un libro in cui si descrive questa realtà? “Come dicevo, al rientro sentivo dentro me un forte bisogno di parlare della Mauritania. Riavvolgendo il nastro della mia mente, continuavo a pensare a certi volti incontrati laggiù, agli sguardi tristi di alcuni e a quelli arroganti di altri, comprendendone sempre più i perché. Poi, nel 2019, ho partecipato ad un corso di scrittura, che prevedeva la stesura di un romanzo Noir, e così ho potuto dare “sfogo” alla mia mente per un racconto sulla Mauritania”.
Quindi le vicende del libro ricalcano episodi reali del suo viaggio? “Il lungo itinerario descritto nel romanzo è lo stesso, organizzato dall’amico Stefano Fazzini (a cui si ispira la figura di Lorenzo), nella Mauritania del Nord. I luoghi di cui ho parlato sono reali, mentre la vicenda e i personaggi sono frutto di fantasia. Gli unici personaggi veri inseriti nel romanzo sono l’attivista Halima e il leader abolizionista Biram Dah Abeid, candidato alle elezioni presidenziali del 2019. L’ipotesi circa un coinvolgimento della SNIM nella tratta di esseri umani è un’invenzione letteraria.”
In passato, Africa ExPress, ha parlato più volte parlato della schiavitù in Mauritania. La ex colonia francese è stato l’ultimo Paese ad aver abolito, sulla carta, la schiavitù, e le punizioni per tale crimine erano miti e quasi mai applicate. Per questo, la schiavitù è stata abolita nuovamente il 12 agosto 2015, con una legge che la considera un reato contro l’umanità.
Ma, essendo ancora una società rigidamente suddivisa in caste, molti soprusi non vengono denunciati. I mauri bianchi o beydens, di origini arabe-berbere, costituiscono la classe dominante, mentre gli haratines e gli afro-mauritani appartengono alla “classe inferiore”. La condizione di schiavo è tramandata da madre in figlio, e chi la incarna non ha potuto quasi mai occupare posti di prestigio nella società. Nel 2019 la polizia della Mauritania ha negato l’ingresso a una delegazione di Amnesty International, giunta nel Paese per indagare su alcune questioni riguardanti la schiavitù. Gli schiavi che denunciano i loro padroni sono, purtroppo, ancora troppo pochi.
Questo dipende dal fatto che sono persone educate alla sottomissione verso il padrone, e anche perché spesso gli ex schiavi fanno fatica ad inserirsi nella società, finendo per vivere la piaga dell’isolamento nelle periferie e quella della disoccupazione. Vivono comunque con un marchio sociale, in una condizione mentale che è stata equiparata a quella di “una donna violentata”.
Elisabetta Crisponi
elicrisponi@hotmail.it
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