in Liberia stupri emergenza nazionale, ma in realtà pochi fanno qualcosa

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Speciale per Africa ExPress
Jacopo Lentini
gennaio 2021

Da qualche mese in Liberia si è riacceso il dibattito sul tema che più di tutti, da anni, riempie la cronaca del Paese: la violenza sessuale. Lo scorso 11 settembre il presidente George Weah aveva dichiarato gli stupri “emergenza nazionale”. L’annuncio era giunto dopo una conferenza di due giorni che ha coinvolto varie organizzazioni della società civile, in protesta fino al mese precedente per l’aumento dei casi di violenze. Nonostante la presa di posizione ufficiale, molti temono che si sia trattato solo di una mossa politica per raffreddare la situazione.

Prima dell’intervento del presidente, ad accendere gli animi era stato lo stupro di una bambina di tre anni da parte di un adolescente, avvenuto lo scorso agosto nella contea di Gbabolu. Il ragazzo avrebbe mutilato con una lama i genitali della vittima per facilitare la penetrazione.

Weah aveva dunque annunciato varie misure repressive, come la nomina di un procuratore speciale per i casi di stupro, l’istituzione di un registro nazionale degli autori di reati sessuali, la creazione una task force contro la violenza di genere e lo stanziamento di 2 milioni dollari per affrontare il problema. “Stiamo assistendo a un’epidemia di stupri durante la pandemia di coronavirus, che colpisce soprattutto bambini e giovani ragazze”, aveva dichiarato Weah. L’impennata di violenze sessuali durante le crisi non è una circostanza nuova nel Paese. Si è verificata anche durante l’epidemia di ebola nel 2014, oltre che durante la guerra civile durata oltre un decennio e terminata nel 2003.

Sarebbe proprio l’eredità culturale del conflitto, che fu tra i più atroci dell’Africa occidentale, a mantenere viva la “mentalità dello stupro”, le cui vittime sono donne per la quasi totalità dei casi. Una volta utilizzato come arma di guerra, secondo i sociologi lo stupro è oggi uno strumento per affermare una mascolinità altrimenti priva di riferimenti.

La Liberia, infatti, vive ancora una forte crisi socio-economica. È tra i dieci paesi più poveri al mondo, come riporta il Fondo Monetario Internazionale, e non ha mai davvero regolato i conti con gli ex combattenti, che secondo le Nazioni Unite nel 2005 erano circa 100mila. La loro impunità ha fatto persistere la “vittimizzazione delle donne, perché lo stupro non faceva storicamente parte di nessuna società maschile nera, ma le donne erano usate come schiave del sesso durante le guerre civili liberiane”, ha spiegato l’ex presidente Ellen Johnson-Sirleaf, il primo capo di Stato donna eletto in Africa.

Eppure, 17 anni dopo, il problema attuale non può ricondursi solo alle esperienze del conflitto, ma anche (e non solo) alla trasformazione dei ruoli di genere una volta ottenuta la pace. Secondo un rapporto del 2012 dell’International Rescue Committee (IRC), “dopo la guerra le donne hanno assunto maggiori responsabilità come capifamiglia, nelle comunità e nell’economia, sfruttando appieno le opportunità per crescere. Ma la spinta per l’uguaglianza ha provocato dei contraccolpi e la loro emancipazione viene vista come una minaccia”.

Il cambiamento del ruolo della donna nel periodo post-conflitto non è una particolarità della Liberia, bensì comune a molte realtà. Qui, però, è avvenuto in un contesto culturale in cui la figura femminile era già sottoposta al dominio dell’uomo in molti aspetti, anche per il diritto tradizionale. “Nonostante i miglioramenti, c’è ancora molta riluttanza nell’accettare una narrazione alternativa a quella dominante maschile, dalla quale derivano vere e proprie norme sociali discriminatorie. Le femministe liberiane propongono modelli diversi di accesso delle donne al mercato del lavoro, alla proprietà, eredità e altro”, spiega Lakshmi Moore, direttrice di ActionAid in Liberia e membro del forum femminista liberiano.

Le leggi e le pratiche tradizionali sono considerate legali nel Paese, a meno che non contraddicano quelle statuarie, con le quali coesistono. “Ad esempio secondo le leggi consuetudinarie, le donne hanno diritto a 1/3 della proprietà e gli uomini possono avere un secondo o terzo matrimonio. Anche se nello scorso decennio molte leggi sono state aggiornate, manca ancora molto da fare”, prosegue Moore.

A causa del gap di sviluppo ed educazione tra zone urbane e rurali, molti abitanti di queste ultime pensano che alcune norme tradizionali, anche quelle sfavorevoli alle donne, siano ancora legali, quando non lo sono più. Ma non è tutto. “Talvolta – continua Moore – in entrambi i sistemi giuridici ci sono leggi discriminatorie, come quelle che impediscono alle madri di trasferire la cittadinanza liberiana ai figli nati all’estero”.

Inoltre, la mutilazione genitale femminile non è stata ufficialmente bandita e mantiene vivi forti retaggi culturali. “Prima di dichiarare l’emergenza nazionale, Weah ha presentato una roadmap contro la violenza di genere, che non può ignorare la necessità di ridefinire il ruolo della donna, ancora parzialmente ostaggio del passato”, conclude Moore.

 

Eppure, dopo quasi quattro mesi, non si sa nulla delle sorti della roadmap e nessuna delle promesse dello scorso settembre è stata realizzata.“La dichiarazione di emergenza nazionale è stata solo una formalità, un ragionamento politico. Non era la prima volta che si verificavano proteste contro gli stupri. Ma ad agosto le donne hanno bloccato le strade di Monrovia e in breve Weah ha dichiarato l’emergenza”, spiega Mae Azango, giornalista liberiana di FrontPageAfrica.

“Secondo il ministero degli affari sociali (*) persino i fondi annunciati non sono mai arrivati”. Proprio questo ministero sarebbe il principale responsabile della roadmap, ma dispone di risorse e competenze limitate. Se da un lato ha un budget di neanche di 2 milioni di dollari, dall’altro non è stato in grado, su specifica richiesta, di dare spiegazioni sul suo coinvolgimento nel programma in questione e di fornire dati aggiornati sui casi di stupro.

Anche i numeri reali delle violenze rimangono un’incognita, dato che molti casi non vengono denunciati, specie nelle zone rurali. “Una della ragioni è che la polizia non aiuta affatto e non esita a chiedere alle vittime i soldi per la benzina per portare loro e i carnefici in commissariato per fare una formale denuncia. Chiedono anche 50 dollari (più del reddito mensile di buona parte della popolazione)”, prosegue Azango.

Le statistiche ufficiali, quando disponibili, sono ottenute sommando i casi riportati al ministero, senza un metodo omogeneo, da una trentina di attori diversi sparsi per il territorio nazionale, come Ong, cliniche, ospedali e tribunali.

Secondo i dati ministeriali del 2018, gli ultimi disponibili per intero, quell’anno vi sono stati 1707 casi di violenze sessuali, di cui 1335 stupri. Del 2020 non sono ancora noti i dati, neanche parziali. Ma secondo l’Ong Liberia’s Women Empowerment Network ci sarebbero stati 600 stupri tra giugno e agosto, mentre per gli organizzatori delle proteste di agosto, da gennaio a luglio vi sarebbero stati 960 casi, senza contare quelli delle comunità remote.

Coi numeri degli stupri gioca da tempo la stampa internazionale, più o meno consapevolmente, citandoli quasi sempre in modo improprio, sulla scia del sensazionalismo. Tra i casi più eclatanti, numerosi media, e persino le Nazioni Unite in un rapporto del 2016, hanno riportato un dato del 2006 dell’Organizzazione Mondiale della Sanità, scrivendo che “in Liberia tra il 60,4 e il 77,4 % delle donne è stato stuprato durante la guerra”. Una cifra impossibile, che si riferiva in realtà al risultato di un sondaggio condotto su un ridotto campione di vittime di violenza.

I numeri certi, invece, sono quelli dei tribunali, che faticano a condannare i carnefici “anche quando l’evidenza è lampante”, spiega Azango. Persino il tribunale “E” per i reati sessuali, istituito nel 2008 dall’allora presidente Sirleaf ha prodotto scarsi risultati. La corte, che ha giurisdizione sul Montserrado, la contea della capitale Monrovia, dove si registra il maggior numero di violenze, ha condannato solo 24 persone tra il 2009 e il 2014. Nello stesso periodo 286 casi di stupro sono stati archiviati. E nel resto del Paese non va meglio. Nel 2015, ad esempio, nell’intera Liberia sono state condannate 34 persone su 774 casi riportati quell’anno.

George Weah, presidente della Liberia dichiara lo stupro emergenza nazionale

Da allora la situazione è rimasta la stessa. Le indagini sulle violenze sono spesso scarse o inesistenti. Secondo Mae Azango, “moltissimi casi si risolvono con un accordo tra la famiglia della vittima e quella del carnefice. Accade per motivi culturali o per nascondere lo stupro evitando lo stigma della donna violata”.

Ma i “compromessi” non sono solo di natura privata e le corti liberiane non sono certo immuni da corruzione. “In un caso una ragazza mentalmente disabile – racconta la giornalista – fu stuprata da un uomo, poi rilasciato su cauzione. Ma in Liberia non è prevista la cauzione per lo stupro. Chiesi al cancelliere di avere una copia delle carte del processo ma si rifiutò di darmele. Questo è ciò con cui combattiamo ogni giorno”.

Jacopo Lentini
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(*) Il ministero si chiama Ministry of Gender, Children & Social Protection, ma ho abbreviato con “ministero degli affari sociali”.

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