I Diavoli del Cairo tornano in Paradiso con la nona coppa dei campioni d’Africa

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Dal Nostro Corrispondente Sportivo
Costantino Muscau
2 dicembre 2020

I “Diavoli rossi” sono rientrati in Paradiso, i “Cavalieri bianchi” sono diventati rossi ma di rabbia. L’incontro del secolo calcistico per la finale di Champions League Africana (CAF Champions League) ha visto il trionfo per la nona volta di Al-Ahly su Zamalek (2-1).

Il match si è disputato venerdì 27 novembre scorso alle 20 italiane allo stadio Internazionale del Cairo: 74 mila posti, in tempi normali. Appena 5 mila spettatori presenti in tempi di peste universale. Nonostante la crescita dei casi di Covid-19 in Egitto e nel mondo, la CAF (la Confederazione africana di calcio) ha, infatti, deciso di far entrare questi fans in rappresentanza dei 90 milioni di tifosi dei 2 club sparsi fra Egitto e i Paesi arabi.

L’”Al-Alhy Sporting club”, ovvero i Diavoli rossi (maglia bianco-rossa), contro lo “Zamalek Sporting club”, i Cavalieri bianchi, entrambi de Il Cairo, sono le squadre più titolate dell’Egitto e dell’intero continente.

Si affrontavano per la prima sfida diretta in Champions ma sono divise da una rivalità storica, secolare.

Nel 2011 Steve Bloomfeld, nel suo fondamentale libro “Africa United: how football explains Africa” aveva precisato: “Quando Hamas e Fatah nel 2007 combattevano per il controllo di Gaza l’unico giorno in cui le armi tacquero fu quando Al Ahly sfidò Zamalek”.

Già nel 2008 Mark Gleeson della Reuters, presentando l’ennesima sfida stracittadina, aveva scritto : “E ‘ un derby che divide la nazione”.

Più che un derby uno scontro calcistico fratricida.

Più che una partita di calcio un confronto politico-sociale.

L’Al-Ahly vide la luce a Zamalek (quartiere residenziale dell’isola di Gezira) nel 1907 da un gruppo di insegnanti e studenti universitari nazionalisti come società polisportiva (anche se ironicamente il primo presidente fu proprio un britannico). Solo in un secondo momento il calcio divenne l’attività agonistica predominante.

Zamalek (prende il nome dall’omonimo quartiere ma a nord dell’isola) fu fondata nel 1911 da un’associazione franco-belga che intendeva utilizzare il calcio come mezzo di integrazione fra fedi e nazionalità. Come giustamente ha scritto il Post.it “i due club rappresentano due anime presenti nella società egiziana. L’unica cosa che condividevano era il loro sentimento anti-britannico: gli inglesi infatti governavano l’Egitto ed escludevano gli egiziani e spesso anche gli altri europei dalle maggiori manifestazioni sportive”.

Il calcio come mezzo di integrazione fra fedi e nazionalità. Come giustamente ha scritto il Post.it: “I due club rappresentano due anime presenti nella società egiziana. L’unica cosa che condividevano era il loro sentimento anti-britannico: gli inglesi infatti governavano l’Egitto ed escludevano gli egiziani e spesso anche gli altri europei dalle maggiori manifestazioni sportive”.

In realtà le due società hanno in comune anche dell’altro: sono popolarissime ma rappresentano la crema della società egiziana e le loro strutture sono molto costose, non certo alla portata delle tasche popolino.

Sottolinea Storiedicalcio.altervista.org: “Da una parte l’Al-Ahly rappresentava le fasce più popolari, lo Zamalek aveva uno status più aristocratico”. Una divisione ancora sentita e così descritta dal giornalista britannico James Piotr Montague, 41 anni, giornalista e scrittore, studioso degli ultras calcistici e del rapporto fra football e politica: “Nell’angolo rosso ci sono il devoto, il povero e l’orgoglioso; nell’angolo bianco la classe media, liberale e borghese”.

La rivalità tra le due squadre è stata messa a tacere nel 2012 dallo scoppio della Primavera Araba. In piazza Taḥrīr gli arcirivali storici si erano uniti nell’opposizione al regime di Hosni Mubarak. L’ambiente politicizzato e violento delle curve si era dimostrato un efficace polo organizzativo per le proteste e aveva contribuito al rovesciamento del regime. Ecco perchè i loro gruppi sono banditi e agiscono nella clandestinità. Per il regime repressivo (e l’Italia ne sa qualcosa con il caso Regeni) del generale Abdel Fattah al-Sisi rappresentano una minaccia per l’ordine pubblico.

Pitso Mosimane, allenatore degli Al-Alhy

Ma venerdì 27 novembre la rivalità calcistica è riesplosa sul piano agonistico: la partita è stata spettacolare ed è stata vinta da Al Ahly 2-1 con il gol decisivo a poco tempo dal termine. Da qui la rabbia dei “Cavalieri bianchi”, che comunque restano la terza squadra più vincente del Continente.

I Diavoli rossi nei festeggiamenti hanno coinvolto anche il loro magazziniere che da 47 anni al lavoro nel club: a sorpresa si è visto consegnare la coppa dai suoi atleti. L’Al-Ahly si è così confermato la superpotenza del pallone africano (e non solo) riconquistando – dopo 7 anni – la nona coppa dei campioni: con 21 trofei internazionali in bacheca – a parte i 42 scudetti – è tra i più titolati del mondo dietro il Real Madrid (28) e davanti a davanti al Milan e Boca Juniors (18). I “diavoli rossi” ora competeranno nel Mondiale per club, il prossimo anno in Qatar. A rappresentare l’Europa ci sarà il Bayern Monaco.

In questa scalata verso il tetto del mondo li ha guidati un sudafricano: è Pitso Mosimane, 56 anni, ex coach del Mamelodi Sundowns, da cui se ne è andato a sorpresa nel settembre scorso per diventare il primo allenatore nero subsahariano di una compagine del Nord Africa. Ha commentato con SOWETANLIVE.CO, l’ex “mentore” della nazionale sudafricana (i noti Bafana Bafana), Ephraim Shakes Mashaba, 70 anni, di Soweto : “Mosimane è un grande figlio del cuore dell’Africa. Meriterebbe di allenare i più grandi club europei. Purtroppo non potrà mai spiegare le sue ali nel Vecchio continente. Gli europei vedono ancora gli africani come gente inferiore. Sappiamo bene come considerano gli allenatori neri, per non parlare poi di quelli che vengono dall’Africa!”

Costantino Muscau
muskost@gmail.com

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