Cornelia I. Toelgyes
13 ottobre 2020
Il governo di Gerusalemme ha dato il via libera all’arrivo di 2000 falash mura nello Stato ebraico. Fanno parte di un gruppo di 8.000 persone che attendono da anni di poter essere accolti nel Paese mediorientale.
Il primo ministro israeliano, ha commentato il fatto in questi termini: “Sei mesi fa ho promesso di portare il resto della comunità ebraica etiopica in Israele. Abbiamo anche investito 80 milioni di shekel (circa 20 milioni di euro) in attività comunitarie. Stiamo rispettando il nostro impegno”.
I falash mura sono una comunità che, come i falascia, si considera discendente degli antichi ebrei etiopi. Fanno risalire le loro origini all’unione tra re Salomone e la regina di Saba o a una delle «dieci tribù perdute» di Israele.
Sono noti anche col termine Beta Israel, che significa Casa Israele, ed è da loro preferito vista l’accezione negativa che la parola falash ha assunto in amarico, e che significa “esiliato” o “straniero”.
Ma differenza dei falascia, i mura sono ebrei etiopi che – sottoposti ad angherie per il loro credo – si sono convertiti al cristianesimo nell’Ottocento e dunque non possono godere della legge del ritorno. Nel 2015 il governo israeliano aveva però adottato all’unanimità un piano che prevedeva di accogliere 9 mila falash mura entro il 2020, persone considerate come aventi diritto a emigrare in Israele e che dimostravano la volontà di convertirsi all’ebraismo. Si tratta più che altro di un piano di ricongiungimento familiare per coloro rimasti in Etiopia, ma avendo almeno un familiare nello Stato ebraico.
I falash mura hanno ottenuto l’autorizzazione di andare in Israele dopo che l’aliya, l’agenzia ebraica che segue le pratiche del ritorno e che ha diversi uffici in giro per il mondo, ha dovuto analizzare ogni singola richiesta.
Nel mese di maggio Israele ha stato nominato un ministro di origine etiopica. Si tratta dell’avvocato Pnina Tamano-Shata, che è a capo del dicastero per l’Immigrazione. La neo-ministra si trova nel Paese dall’età di 3 anni, grazie agli interventi top-secret “operazione Mosè”, “ operazione Giosuè” e “operazione Salomone”, effettuati dall’allora governo di Tel Aviv tra l’84 e il ’91.
Attualmente nello Stato ebraico vivono 140.000 tra falascia e falsh mura, per lo più in miseria, soggetti a discriminazioni di ogni genere, ma ciò che contestano maggiormente è il crescente razzismo. Solo la metà dei giovani ebrei di origine etiopica riesce ad ottenere il diploma, contro il sessantatré per cento del resto della popolazione.
Anche se alcuni di loro hanno raggiunto posizioni importanti nell’esercito, nel pubblico impiego, altri sono diventati politici di rilievo e occupano una poltrona alla Knesset, la loro vita in Israele non è semplice e in linea di massima guadagnano un terzo in meno rispetto alla media.
Cornelia I. Toegyes
corneliacit@hotmail.it
@cotoelgyes
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