Cornelia I. Toelgyes
21 settembre 2020
Due fidanzati si sono suicidati un paio di settimana fa in Nigeria perchè i genitori avevano posto il veto sul matrimonio, in quanto uno di loro era discendente di schiavi.
Sembra rileggere la tragedia shakespeariane “Romeo e Giulietta”, con la differenza che lo scenario non è Verona, bensì la Nigeria e non siamo nel quattordicesimo secolo (anche se l’opera fu scritta negli anni 1594-1596) ma nel 2020. Questa volta il dramma si è consumato a migliaia di chilometri di distanza dall’Italia, a Okija, Anambra state, nel sud-est della ex colonia britannica.
Nel 1900 la Gran Bretagna aveva abolito la schiavitù in tutto il Paese, eppure presso l’etnia igbo i pronipoti degli ex schiavi portano ancora “il marchio” dei loro avi e la cultura locale vieta loro di sposarsi con coloro nati liberi.
Gli Igbo costituiscono un importante gruppo etnico africano. In Nigeria rappresentano circa il 17 per cento della popolazione e sono presenti soprattutto negli stati Anambra, Abia, Imo, Ebonyi, Enugu, Delta, Rivers. Questa etnia ha praticato la schiavitù ben prima della colonizzazione; la richiesta di schiavi è comunque aumentata nel sedicesimo secolo con la tratta atlantica e la società degli igbo era divisa in tre categorie di persone: diala, ohu e osu.
I primi erano i cosiddetti “nati liberi“ e godevano di tutti privilegi, erano considerati “veri esseri umani“. Gli ohu, invece, erano prigionieri, catturati in altre zone, oppure erano persone ridotte in schiavitù perchè nell’impossibilità di onorare debiti o come punizione per crimini commessi. I diala li tenevano in casa come servi, oppure li vendevano a mercanti bianchi, occasionalmente erano le vittime di omicidi rituali durante cerimonie religiose oppure venivano sotterrati vivi insieme al padrone durante l’onoranza funebre.
Gli osu, invece, erano proprietà di divinità tradizionali. Se un diala implorava una grazia, come la nascita di un figlio maschio o protezione da un’epidemia, l’auspicio di un buon raccolto, offriva uno schiavo o un membro della famiglia a un dio. Anche un criminale, per scappare da una pesante condanna, poteva rifugiarsi in uno di questi luoghi di culto e offrire se stesso a una divinità, diventando così un osu. Questa casta era costretta a vivere in disparte e a occuparsi della manutenzione del santuario. I contatti con le comunità vicine erano rare, erano condannati a essere un tabù per l’eternità e così i loro figli.
I discendenti degli ohu e osu spesso non possono nemmeno aprire bocca ancora oggi durante assemblee comunitarie, tanto meno sposarsi con un diala. A poco è servita l’entrata in vigore di una legge nel lontano 1956, volta a abolire le caste. E Anthony Obinna, arcivescovo cattolico di Owerri, capoluogo dell’Imo state, che combatte da anni questo sistema, ha precisato: “Normative e leggi non sono sufficienti per abolire consuetudini primordiali”.
Il sistema delle caste è ancora presente in tutto il sud-est del Paese, specie nei piccoli centri, dove le discendenze dei componenti delle comunità locali vengono tramandate di padre in figlio. Molti pronipoti di ex schiavi hanno studiato e, a volte con fatica, hanno conquistato posizioni di rilievo anche nell’apparato statale o all’estero, hanno raggiunto stabilità e benessere economico, eppure nel loro villaggio di origine sono rimasti osu o ohu.
Si stima che oggi un 10 – 20 per cento degli igbo (alcuni milioni di nigeriani) subiscano ancora discriminazioni riconducibili al passato dei loro avi. Oge Maduagwu, fondatrice della ONG Ifetacsious (acronimo inglese per Initiative for the Eradication of Traditional and Cultural Stigmatisation in our Society) e attivista in prima linea per sradicare le ingiustizie ancestrali, ha viaggiato per diversi anni nel Igboland, cercando di spiegare e convincere i membri delle comunità locali di estendere gli stessi diritti a tutta la popolazione.
Oggi i pronipoti degli schiavi chiedono con insistenza la parità dei diritti nel loro Paese. E la Madagwu ha sottolineato a questo proposito: “Le sofferenze e le discriminazioni degli afroamericani sono le stesse che subiscono i discendenti degli schiavi in una parte della Nigeria. Se non si capisce questo, è inutile che i diala alzino la voce contro gli statunitensi bianchi, unendosi al coro di “Black Lives Matter”.
Cornelia I. Toelgyes
corneliacit@hotmail
@cotoelgyes
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