Francesco Tripodi
7 settembre 2020
È un peccato abbia suscitato finora una scarsa attenzione la pubblicazione in Italia, dopo oltre cento anni dalla sua uscita in Inghilterra, avvenuta nel 1909, di un saggio scritto dal “padre” di Sherlock Holmes, Sir Arthur Conan Doyle, intitolato senza molti giri di parole “The crime of Congo” (Arthur Conan Doyle, Il crimine del Congo, a cura di Giuseppe Motta, ed. Bordeaux 2020, pp. 165 euro 14).
I fatti che il saggio descrive con la precisione di una moderna inchiesta giornalistica ed uno stile inconfondibile meritano invece di essere oggetto di una più estesa riflessione, offerta dalla densa prefazione dallo storico Giuseppe Motta. Si tratta di scoprire, più che riscoprire, uno dei casi più inquietanti di un “Olocausto” strisciante e dimenticato: soprattutto perché “africano”, ma anche per sminuire le responsabilità di quel monarca europeo che, secondo Conan Doyle, è, senza mezzi termini, l’autore del crimine: Leopoldo II, re del Belgio.
Forse pochi oggi ricordano che la Repubblica Democratica del Congo – il cosiddetto Congo “belga”, indipendente dal 1960, denominato Zaire per volere del dittatore Mobutu dal 1971 al 1997, con un territorio estesissimo e ricco di materie prime – ha le sue strane radici fondative nelle concessioni che vennero fatte a favore di Leopoldo II del Belgio alla Conferenza di Berlino la quale, tra il 1884 ed il 1885, fu organizzata da Bismarck per definire principi e regole spartitorie del colonialismo europeo di fine Ottocento sul continente africano.
Mentre i pionieri dell’esplorazione dell’Africa (Stanley in primo luogo) tracciavano il solco di territori interni carichi di ricchezze naturali da raccogliere con alle spalle mecenati interessati nei Governi degli Stati che preparavano le rispettive zone di influenza, Leopoldo II del Belgio (il più attivo tra essi nel finanziare le missioni di Stanley), si pose alla ribalta della conferenza, propugnando quella che sembrava una posizione originale e per i tempi assai “liberale”: fare dei territori interni a cavallo del fiume Congo, nel suo ampio tratto navigabile risalendo dall’Atlantico fino all’odierna Kisangani, la Stanleyville di allora, un “possedimento” fiduciario della corona, che garantisse però la libertà del commercio e nella quale l’apparato amministrativo avesse come obiettivo primario quello di soddisfare le istanze di civilizzazione e progresso dei popoli africani.
Questo spot di un Re filantropo e di un nascente mercato “buono” era avvalorato dalle origini “commerciali” e non militari della presenza belga in Africa se si pensa che Stanley su incarico del sovrano aveva percorso il fiume e stipulato oltre trecento “contratti” con capitribù locali per la costruzione di un sistema di stazioni lungo il fiume che facessero da collettori delle ricchezze della foresta.
Nasceva così, all’insegna di una smaccata ipocrisia giuridico-internazionale, lo “Stato libero del Congo”.
Conan Doyle individua subito infatti in questa retorica patrocinata da Leopoldo II la ragione più forte del suo successo e denuncia quello che in realtà, sotto la facciata, divenne un “domaine privée” in ogni senso del monarca. Leopoldo II ottenne infatti una delega in bianco per realizzare il frazionamento del territorio attraverso gigantesche concessioni commerciali a società prevalentemente belghe volte a “prendere” dal Congo il petrolio dell’epoca: la gomma naturale, quella che chiamammo in Italia il caucciù.
L’enorme richiesta di questa materia prima, con l’incipiente motorizzazione globale, vede competere dal 1890 in poi fameliche società commerciali a prevalenza belga che diventano di fatto la vera amministrazione coloniale, con esonero di responsabilità giuridica per lo Stato belga, mentre i singoli organi del fantomatico Stato “libero” erano in realtà funzionari che rispondevano direttamente al Re, il cui unico scopo sul posto era di imporre percentuali milionarie sui profitti del commercio.
Curiosamente – lo ricorda Marco Boccitto sul Manifesto del 12 luglio scorso – gli Stati Uniti, unici invitati non europei alla Conferenza di Berlino, furono i primi “ad aprire ufficialmente alla bizzarria dello Stato libero del Congo”, illusi o attratti da quell’idea del libero commercio antesignana della moderna globalizzazione, nonostante le riserve di altri Stati europei dal piglio coloniale attentamente statuale come l’Inghilterra.
Certo, gli inglesi, superpotenza mondiale di quegli anni, non avevano forse le carte in regola per impartire lezioni di politica coloniale ad altri, ma Sir Arthur Conan Doyle mette in conto queste critiche, le affronta esplicitamente una per una, smontando quello che proprio lo indigna di più: “L’odioso pretesto di filantropia” posto a copertura di un colonialismo predatorio con pochi eguali.
Il saggio è un campionario angosciante di resoconti (diplomatici, missionari, viaggiatori) con fonti quindi variegate ed indipendenti che compongono il quadro stringente di una trama che l’autore di tanti gialli sta attento a separare dalle proprie caustiche opinioni. Il lettore ne resta inorridito.
Giuridicamente le uniche terre che restavano alle popolazioni locali erano quelle attigue ai villaggi, la foresta con gli alberi della gomma era territorio “vacante”, riserva delle compagnie, il lavoro forzato è imposto collettivamente e non è chiamato schiavitù perché presentato all’esterno come una “tassa” sulla civilizzazione ed ogni tanto compensato da una caraffa di sale.
Ma non vi è alcun contratto di lavoro. Se non viene portata abbastanza gomma tutti gli abitanti del villaggio per una sistematica politica di terrore vengono massacrati e i vigilanti devono portare alla base, in mancanza di ceste sufficienti, le mani mozzate dai cadaveri, affumicate perché si conservino meglio.
Un’altra forma di punizione per chi non riusciva a portare le quantità volute di caucciù era la distruzione dei raccolti o addirittura dei villaggi. E portare la preziosa resina nelle quantità volute diventava sempre più difficile, perché le piante adatte, visto lo sfruttamento intensivo, si trovavano sempre più lontano dal fiume e molti villaggi non riuscivano a onorare le richieste. Ai lavoratori vicini ai centri di smistamento sul fiume, il lavoro forzato e l’obbedienza sono imposte con punizioni corporali spaventose, frustate con un nerbo di pelle di ippopotamo (la chicotte) simile negli effetti al flagellum romano.
Come in un racconto di Hemingway, nulla dell’inchiesta di Conan Doyle è lasciato alla suggestione emotiva e tutto pesa sulla nuda forza dei fatti. Come quando lo scrittore segnala i ricavi astronomici delle società coloniali del Belgio legate a Leopoldo II e, come sottolinea Motta nella sua introduzione, la stretta relazione che era venuta a crearsi tra la produzione e il numero di cartucce utilizzate, testimoniata da varie corrispondenze tra l’Europa e le società del posto.
Come la storia spesso ci mostra, anche allora non mancarono i giusti, i testimoni che non accettarono il ruolo di “utili idioti” del presunto progresso di Leopoldo II. E se molte sono le citazioni di diplomatici e viaggiatori britannici, ve ne è una che ci riguarda da vicino e ci sorprende. Ed è la scelta dell’Italia, che pure aveva inviato in Congo alcuni ufficiali in appoggio alla “missione” di Re Leopoldo, accarezzando l’idea di creare un avamposto commerciale e che riceve da un suo ufficiale notizie raggelanti sulla realtà dello sfruttamento dei popoli indigeni. Annota Conan Doyle che dinanzi al Parlamento italiano il 4 febbraio 1907 l’avvocato Augusto Santini si rallegrava che l’Italia non avesse messo i suoi soldati “…agli ordini di una associazione di schiavisti e barbari”.
Addolora poi, e su esso si sofferma brevemente Conan Doyle, anche il silenzio “istituzionale” della Chiesa cattolica, pur impegnata con tanti missionari ad arginare sul campo, dove possibile, atrocità e soprusi, ma incapace di alzare la sua voce sugli affari di re e governi. Non è una novità, avverrà anche per il fascismo ed il nazismo. Furono soprattutto i missionari protestanti i più attivi a denunciare le atrocità commesse, ma senza successo, anche perché invisi al cattolicesimo belga e rappresentati quali interessati “competitors”. Ma non sono mancate alcune fulgide eccezioni all’interno della Chiesa, segnalate dall’autore, come l’opera di denuncia “La question congolaise” del padre gesuita Vermeersch, pubblicata con grande clamore a Bruxelles nel 1906.
Lo scopo dello scrittore inglese era eminentemente pratico, come dichiara espressamente. Conclude il libro con un appello a sostenere la campagna di opinione e denuncia. E non senza risultati. La Congo Reform Association (della quale fecero parte anche Mark Twain e Joseph Conrad che aveva scritto nel 1899 dopo un viaggio sul fiume Congo il celebre “Cuore di Tenebra”) riuscì a creare un movimento di opinione “globale” di tale forza, ricorda Motta, da costringere Leopoldo II ad istituire nel 1906 una commissione d’inchiesta la quale, per quanto “addomesticata” con funzionari di fiducia del Re, non potè esimersi dal confermare diversi episodi di atrocità.
Villaggi visitati negli anni precedenti e densamente popolati vengono trovati ridotti a poche ombre macilente di esseri umani impauriti dal solo apparire di un uomo bianco. Si affretta così la nazionalizzazione da parte del Belgio nel 1908 di questa ibrida entità coloniale, mezzo pubblica e mezzo privata, gabbia giuridica di due decenni di orrore. Ovviamente poco cambiò almeno inizialmente, ma si avviò un processo che pose termine a quel diffuso indiscriminato strumento di terrore alla base del lavoro forzato.
Il giudizio finale del saggio («il più grande crimine di tutta la storia, ancora più grave per essere stato commesso sotto un odioso pretesto di filantropia), leggendo il libro, non appare esagerato.
Una missionaria e fotografa inglese dell’epoca, Alice Seeley Harris, ci ha lasciato con numerose fotografie una testimonianza vivida di quello che avvenne, più forte di qualunque racconto. Una di esse del 1904 ritrae un uomo seduto all’ingresso della missione che fissa vicino due oggetti messi uno accanto all’altro su una stuoia: facendo attenzione, appaiono essere il piede e la mano di un bambino, tagliati. L’uomo nell’immagine, Nsala era arrivato alla missione della Harris portando un involto con i resti di sua figlia, una bambina di cinque anni. Era stata uccisa e smembrata come punizione, poiché il suo villaggio non era stato in grado di produrre la quantità di gomma richiesta dalle società di re Leopoldo.
Nell’inviare al presidente del Congo-K i suoi saluti per le celebrazioni dei sessant’anni dell’indipendenza, nel giugno scorso, re Filippo del Belgio, ha espresso per la prima volta “rammarico” per gli “atti di violenza e crudeltà” e le “sofferenze” inflitte al Congo, definendoli come atti che “pesano ancora sulla nostra memoria collettiva”. Meglio tardi che mai.
Il discendente di Leopoldo II ha posto le premesse per rendere a quella bambina ed a milioni di persone un minimo di postuma giustizia, quella che il Congo di oggi, gigante in ginocchio, continua ad attendere. Purchè non resti anche questa retorica.
Francesco Tripodi
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Buongiorno, l'articolo del Sig. Francesco Tripodi in data 7 settembre 2020 è molto interessante ed esaustivo. Sto facendo alcune ricerche sulla famiglia di mia madre che è nata appunto nel Congo Belga da madre di etnia Hutu in quanto suo padre, italiano di origini inglesi era partito per l'Africa agli inizi del 1900. Sono uno scrittore dilettante ma sto cercando di riunire la storia di famiglia in un racconto il più possibile attinente alla realtà. Vi chiedo cortesemente di poter inserire integralmente o in parte l'articolo del Sig. Tripodi nel racconto, citandone chiaramente la fonte e la paternità , ovviamente con il Suo permesso perché non vorrei incorrere in problemi di copyright. Per me è importante in quanto potrebbe permettermi di far comprendere meglio lo stato delle cose in quel periodo.
Ringraziando per l'attenzione, in attesa di un Vostro riscontro.
Porgo distinti saluti
Mario Banchieri
faccia pure ma citi la fonte per favore