Marco Patricelli
26 luglio 2020
La storia è piena di consacrazioni, sconsacrazioni e riconsacrazioni di luoghi di culto. La storia, però, è passato: non è presente.
Il presidente-dittatore della Turchia, Erdogan, non fa mistero di guardare sempre indietro per scegliersi i modelli ai quali assomigliare per entrare nella storia proiettandola nel presente.
Santa Sofia, come è conosciuta nell’intero mondo denunciando cos’è e cosa rappresenta, è dunque tornata a essere moschea. Per decreto è diventata da patrimonio dell’umanità un’esclusiva di una confessione religiosa assunta a parametro della vita civile, risaldando i due elementi della società turca che Mustafà Kemal Ataturk con grande lungimiranza aveva separato per fare della Turchia una nazione al passo con i tempi.
Uno sforzo immane, quello del padre della Patria, che puntò tutto sulla piccola testa occidentale spiccata dal Bosforo al grande corpo arretrato a oriente che costituisce la massa demografica dello stato nazionale emerso dalla decomposizione dell’Impero ottomano e dalla sconfitta della prima guerra mondiale.
La Turchia doveva essere, e in parte è stata, altro. Ataturk le impose una cura da cavallo per svecchiare un apparato sclerotizzato, applicando la lezione di Pietro il Grande che aveva proiettato la Russia verso la civiltà occidentale imponendo il taglio della barba ai boiardi.
Erdogan ha cancellato in pochissimo tempo le conquiste kemaliane ed è giunto al punto di non ritorno riconsacrando all’Islam il museo già moschea e già superba cattedrale cristiana. Un atto di forza che ha suscitato qualche inane pigolio nella sempre più decadente Europa che parla a più voci e che a volte sussurra quando dovrebbe alzare la voce.
Il sultano di Istanbul ha ideato pure la sardonica e irriverente sottolineatura con l’invito-beffa a partecipare alla cerimonia inoltrata a Bergoglio, non è ancora chiaro se come capo dello Stato più piccolo del mondo o come capo di una cristianità sempre più smarrita, sempre più sotto attacco e sempre più sotto silenzio. I ragazzini degli Anni ’70 ricorderanno una serie di telefilm francesi ambientati in Terra santa, «Thibaud, il cavaliere bianco». Protagonista, un crociato che combatteva i musulmani.
Oggi quegli innocenti telefilm sarebbero improponibili (e infatti non li si rivede neppure nel più scaciolato canale digitale), perché una parte del mondo islamico potrebbe “offendersi”. L’Occidente, in nome del politically correct a senso unico, ha rimosso con masochistica comprensione i presepi che “offendevano” e le croci nelle scuole e negli ospedali che “offendevano” il credo degli ospiti.
Qualcuno ricorderà come una tutt’altro che divertente macchietta dell’arboriano Andy Luotto nei panni improponibili di uno sceicco arabo “offese” talmente tanto da arrivare alle minacce culminate dalla cancellazione del personaggio e dalla sparizione dal piccolo schermo di Luotto stesso. Salman Rushdie, i suoi «Versetti satanici» che “offendevano” e la fatwa spiccata per reazione sulla sua testa, erano ancora in là a venire, ma certi segnali non ebbero la risposta che forse avrebbero meritato.
Oggi un galantuomo iperdemocratico come Erdogan, muove i carri armati in Siria come se giocasse a Risiko in Jacuzia e Kamchatka, spara missili a capriccio come neanche Gheddafi ai tempi dei deliri di onnipotenza, stringe alleanze con chi gli pare, fa la politica estera che più gli aggrada, sta un po’ di qua e un po’ di là, ma fa sempre quel che vuole con l’arroganza del più forte e la faccia tosta di chi può permetterselo.
E’ ben consapevole che può tirare lo schiaffo, tanto gli porgono subito, ecumenicamente, l’altra guancia, ha capito con tempismo che poteva riprendersi la Libia strappata dagli italiani all’Impero ottomano nel secolo scorso, che può alzare la posta a piacimento sugli scenari di crisi che alimenta o innesca lui stesso, che insomma può tirare l’elastico degli equilibri internazionali anche rischiando di spezzarlo perché per lui il gioco vale la candela.
Alleato della Nato, adotta i sistemi missilistici della Russia; chiede l’ingresso in Europa e la ricatta spregiudicatamente con la pressione dei migranti; provoca la Grecia e fa il gatto col topolino ellenico; si fa chiamare presidente ed è un dittatore dai pieni poteri; veste in doppio petto ma ambisce ai paludamenti del sultano; crede di incarnare la Turchia moderna ma fa leva sulla parte più retrograda della nazione.
Ha cancellato in pochi mesi le conquiste di Ataturk e ha soffiato sulla brace delle contrapposizioni religiose. Nessuno, in Occidente, è sembrato “offeso” dell’avanzata a grandi passi del vento del passato e dell’integralismo, con una muffita tolleranza acritica e unidirezionale. Santa Sofia, quando venne concepita nel VI secolo da Giustiniano, era la chiesa più grande del mondo.
Quando Bisanzio, come si chiamava Costantinopoli nel XV secolo, cadde chiudendo l’esperienza dell’Impero romano d’oriente, il cristianesimo venne eradicato per assimilazione anche violenta così come gli ottomani erano soliti fare con i prigionieri cristiani militarizzati nel terribile corpo dei giannizzeri scatenati proprio contro i cristiani.
La convivenza, che pure ci fu, era una concessione che rimarcava la forza del potere e che comunque non era affatto paritaria come qualcuno preferisce credere e far credere. La moschea di Istanbul è molto più del canto di un muezzin. Perché sul Bosforo il tramonto della civiltà, anche nel XXI secolo, illumina la mezzaluna di Erdogan che rimanda ombre sinistre su quest’altra parte del mondo. E intanto si gode il suo personale trionfo sotto le bandiere dell’Islam che garriscono al vento.
Marco Patricelli
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