Antonio Mazzeo
27 Giugno 2020
Si definisce “plasmaterapia” e per alcuni – pochi – potrebbe contrastare la pandemia da coronavirus. Si preleva il plasma” dal sangue dei convalescenti da Covid-19 per poi immetterlo nell’organismo di chi è ancora gravemente ammalato. A questo punto gli anticorpi presenti nel plasma “iperimmune” dovrebbero esercitare un’azione neutralizzante sul virus, contribuendo al miglioramento delle condizioni cliniche e alla guarigione dei pazienti.
La sperimentazione in Italia della plasmaterapia anti-coronavirus è stata avviata dopo l’Ok del ministero della Salute con una circolare del 27 marzo scorso, piena di perplessità scientifiche e raccomandazioni per una corretta gestione dei pazienti immunodepressi. “Pur ribadendo l’incertezza attualmente esistente del beneficio clinico derivante da questo approccio – riporta il ministero – nei pazienti con deficit dell’immunità umorale che sviluppino un quadro di Covid-19 si può prendere in considerazione (ottimalmente nell’ambito di triaI clinici autorizzati) la possibilità di procedere all’infusione di plasma di soggetti convalescenti che abbiano superato l’infezione da SARS-CoV-2. Ovviamente, il soggetto donatore dovrà compiutamente rispondere ai requisiti previsti dalla normativa vigente per la donazione di emocomponenti”.
A partire con i test sono stati quattro ospedali lombardi: il Policlinico San Matteo di Pavia e i presidi “Carlo Poma” di Mantova, “Maggiore” di Lodi e Asst di Cremona. Il 15 maggio, previa autorizzazione del comitato etico dell’INMI “Lazzaro Spallanzani” di Roma, ha preso il via su tutto il territorio nazionale TSUNAMI (acronimo di TranSfUsion of coNvaleScent plAsma for the treatment of severe pneuMonIa due to SARS.CoV2), uno studio comparativo randomizzato per valutare l’efficacia e il ruolo del plasma ottenuto da pazienti convalescenti da Covid-19. Promosso dal ministero della Salute, dall’Istituto Superiore di Sanità e dall’AIFA (Agenzia Italiana del Farmaco), TSUNAMI vede coinvolti 56 centri di 12 regioni, con il coordinamento dell’azienda ospedaliera di Pisa e del Policlinico di Pavia e la supervisone di un comitato scientifico presieduto dal direttore AIFA, Nicola Magrini.
Nonostante le prescrizioni del ministero in tema di controllo e trattamento del plasma “iperimmune” e l’avvio su vasta scala della plasmaterapia, Mater Olbia Hospital, Università Cattolica del Sacro Cuore di Milano e Fondazione Policlinico Universitario “Agostino Gemelli” di Roma hanno avviato in autonomia una ricerca in materia con alcune istituzioni sanitarie del lontano Qatar, con tanto di sponsor istituzionali: l’ambasciata italiana a Doha e l’Aeronautica militare che ha un proprio presidio nella grande base aerea qatarina di Al-Udeid.
Incomprensibili e dispendiose le modalità adottate dai partner del progetto: il plasma è prelevato negli ospedali dell’emirato da “donatori” convalescenti e infuso in malati “volontari”; poi ancora un altro prelievo da questi ultimi e il trasporto di plasma con un volo militare dell’Aeronautica prima a Roma e poi ad Olbia per una prima campagna di test sugli anticorpi presenti. Infine un nuovo volo del plasma qatarino verso la capitale e una seconda attività sperimentale nel laboratorio di Microbiologia dell’Università Cattolica.
Il budget messo in campo per il programma è ragguardevole, 500.000 euro, provenienti in buona parte dal Qatar Foundation Endowment, azionista di maggioranza della società titolare del Mater Hospital di Olbia. Ma la vera ragione della plasma-triangolazione Doha-Olbia-Roma sta forse nella necessità di rendere sempre più solide e strategiche le relazioni politiche e militari tra il nostro paese e il controverso regime qatarino. “La fornitura del Qatar di campioni di plasma di pazienti da Covid-10 agli esperti ricercatori biomedici in Italia riflette i validi e prolungati legami scientifici tra le due nazioni”, ha dichiarato il vicepresidente della Qatar Foundation, Richard O’Kennedy. “Siamo molto orgogliosi che i principali centri medici italiani e del Qatar lavorino insieme per un progetto che può fare davvero la differenza per le persone e salvare vite umane”, ha spiegato l’ambasciatore italiano Alessandro Prunas, tra i sostenitori del plasma-programma. “La ricerca scientifica è diventata un aspetto fondamentale della nostra cooperazione bilaterale e sono fiducioso che presto l’Italia e il Qatar rafforzeranno ulteriormente il loro impegno nello sviluppo di nuovi progetti che sblocchino il potenziale non sfruttato in questo settore”. Dopo aver fatto incetta di petrolio, gas, fregate, cacciabombardieri, mitra e pistole, le holding finanziarie italo-qatarine si lanciano dunque all’arrembaggio di ospedali, laboratori scientifici e società farmaceutiche.
E il rispetto di protocolli e codici etici? Forse in Italia, assai difficile in Qatar dove le violazioni dei diritti umani sono all’ordine del giorno (vedi quanto accade ai lavoratori, in buona parte immigrati, impiegati nella realizzazione degli impianti sportivi del Mondiale di calcio 2022). Da quanto è possibile apprendere dai media locali, la sperimentazione del plasma anti-Covid sarebbe stata avviata nell’emirato sin dalla prima decade di aprile dall’Hamad Medical Corporation, tra i partner del programma del Mater Olbia e della Cattolica del Sacro Cuore. A individuare i “donatori” sei strutture sanitarie anti-Covid19: il Communicable Disease Center e gli ospedali Hazm Mebaireek, Mesaieed, Ras Laffan, Al Shahaniya e The Cuban Hospital.
“Più di 170 pazienti da Covid-19 in Qatar hanno ricevuto sino ad oggi il trattamento di plasma”, hanno riferito i responsabili dell’Hamad Medical, il 7 giugno scorso. “Abbiamo equipaggiato il centro-donazione con gli ultimi ritrovati tecnologici in grado di separare direttamente il plasma dal sangue e restituire simultaneamente le altre componenti al donatore, con un procedimento che dura 45 minuti circa. Inoltre il centro ha apparecchiature per la conservazione del plasma a 80 gradi sotto zero, in modo che ne sia assicurata l’idoneità il più a lungo possibile. Secondo quanto previsto dal protocollo, molti pazienti con Covid-19 in Qatar saranno dimessi dalle strutture ospedaliere 14 giorni dopo il loro primo test positivo. Dopo 28 giorni, essi potranno donare il plasma per i test, così da assicurare che un numero sufficiente di anticorpi sia presente nel loro plasma e che esso non sia infetto”. Strutture qatarine all’avanguardia nella plasmaterapia; perché allora la necessità di ulteriori sperimentazioni in Italia?
Difficile capire poi il motivo per cui è a coordinare il programma ad Olbia sia stato chiamato l’infettivologo Stefano Vella, già direttore del Centro Nazionale per la Salute Globale dell’Istituto Superiore di Sanità, ex Presidente dell’AIFA, adjunct professor dell’Università Cattolica e, da fine marzo, membro del comitato tecnico-scientifico della Regione Sardegna per la gestione delle misure di contrasto al coronavirus nell’Isola. Inizialmente il prof. Vella si era dichiarato assai scettico sull’efficacia della plasmaterapia, preferendo la ricerca per nuovi vaccini e la sperimentazione di anticorpi monoclonali creati in laboratorio. “Come rappresentante italiano nella commissione Horizon Europe, per i vaccini vedo progetti frutto di intensa collaborazione internazionale, con una mobilitazione paragonabile a quella vista per Aids, tubercolosi, malaria. La plasmaterapia è stata usata per tante malattie in passato, ma è una soluzione direi preistorica, con tutti i rischi che comporta: oggi guardiamo ad altro”, dichiarava il 15 marzo alla testata Quotidiano.Net.
L’8 maggio, in un’intervista a la Stampa, il prof. Vella appariva più possibilista: “Dagli studi preliminari sembra che il successo della plasmaterapia sia stato abbastanza alto. Ora bisogna capire bene quali anticorpi diano la guarigione, sia in fatto di qualità che di quantità. Perché in alcune persone la terapia ha funzionato egregiamente mentre in altre no. (…)Come per tutti i farmaci prima si dà il plasma iperimmune e meglio è. Però in molti casi l’infezione – se leggera – sparisce da sola, quindi sarebbe un errore somministrarla. Ma sarebbe un errore anche aspettare che la malattia diventi grave. Quindi l’ideale sarebbe il momento in cui il sintomi del paziente cominciano a peggiorare. Per questo ci vuole molta cautela”.
Ancora vaccini e terapia con anticorpi monoclonali in un’intervista al notiziario dell’AIOM, l’Associazione Italiana di Oncologia Medica, pubblicata il 20 maggio, una settimana dopo che il Mater Hospital di Olbia aveva reso noto l’accordo con la Qatar Foundation. “Gli anticorpi monoclonali potrebbero essere i primi farmaci intelligenti, mirati in modo specifico contro il virus”, spiegava il neocoordinatore del programma pro risposta immunitaria naturale. “Essi non sono in competizione con il vaccino, sono infatti terapie mirate indirizzate a chi è stato contagiato, mentre il vaccino preventivo è destinato agli individui sani. La cura con anticorpi monoclonali è una delle vie da percorrere…”. Ancora più lapidaria l’affermazione di Stefano Vella a Il Giornale del 24 maggio 2020: “L’unica soluzione definitiva sarà il vaccino”.
In pole position nelle attività di sviluppo degli anticorpi monoclonali neutralizzanti ci sono alcuni centri scientifici finanziati e coordinati dal ministero della Difesa d’Israele, in particolare l’Israel Institute for Biological Research (IIBR) diretto dal prof. Shmuel Shapira, ex colonnello medico e fondatore e capo del Dipartimento di Medicina militare della Hebrew University di Tel Aviv. Proprio l’IIBR ha avviato recentemente una collaborazione sugli anti-virus monoclonali con l’Azienda Ospedaliere Universitaria “Careggi” di Firenze e la Fondazione Toscana Life Science di Siena (vicepresidente Carlo Rossi, presidente della Fondazione Monte dei Paschi di Siena; consigliere Alessandro Campana, docente di Scienze economiche nel corso in Biotecnologie Sanitarie dell’Università Cattolica di Roma).
Il complesso militare-industriale israeliano ha conseguito inquietanti risultati anche nel campo del “tracciamento e schedatura” delle persone colpite dal Covid-19, grazie a tecnologie di elaborazione vocale e all’intelligenza artificiale. A fine marzo l’Amministrazione per lo sviluppo dei sistemi d’arma del Ministero della Difesa ha reso pubblica l’attivazione di una specifica app che consente di campionare le voci dei pazienti affetti da coronavirus. L’app è stata realizzata da Vocalis Health, società high tech con sede a Tel Aviv, in collaborazione con l’Afeka College of Engineering e il Rabin Medical Center di Petah Tikva.
Da un mese a questa parte questi due enti medici hanno stretto una partnership proprio con l’Università del Sacro Cuore di Milano e la Fondazione Policlinico “Agostino Gemelli” di Roma. “I centri di Italia e Israele stanno lavorando congiuntamente utilizzando nella pratica clinica le loro competenze sull’elaborazione vocale e l’intelligenza artificiale per consentire il rilevamento pre-diagnostico dei potenziali portatori di Covid-19 attraverso l’analisi della voce, del parlato e della tosse dei pazienti”, ha riferito l’ambasciata italiana a Tel Aviv, il 16 giugno scorso.
“Si sta realizzando un database di migliaia di campioni di voce, tosse e respiro di pazienti infetti da Covid 19, ma anche di pazienti con l’influenza stagionale, di modo da poter marcare le differenze e ottimizzare la diagnosi del sistema”. A finanziare studi e ricerche concorrerà molto probabilmente l’Unione Europea, con i fondi di Horizon 2021-2027. Dallo scorso mese di gennaio, “rappresentante italiano” al Programma Quadro di Ricerca Europeo per conto del MIUR e del ministero della Salute è il prof. Stefano Vella.
Ricapitolando, le istituzioni accademiche care a Vaticano, Conferenza Episcopale Italiana e Comunione e Liberazione hanno contestualmente avviato programmi di ricerca anti-Covid con fondazioni del Qatar e centri di ricerca “vicini” alle forze armate d’Israele. Due Paesi, Qatar e Israele, in aperta “guerra fredda” per le relative contrapposte relazioni con l’Iran, gli Hezbollah in Libano e Hamas a Gaza.
Pecunia non olet e anche la fondazione allo sviluppo creata dai sovrani dell’emirato non ha avuto remore a promuovere l’affaire miliardario del Mater Olbia in compagnia del gruppo finanziario a capo dell’asse Cattolica-Gemelli, non nuovo in verità ad accordi strategici con le aziende e gli enti militari e paramilitari israeliani. Nel dicembre 2013, a Villa Madama, a conclusione di un vertice intergovernativo Italia–Israele, l’Università Cattolica del Sacro Cuore, rappresentata dal Rettore Franco Anelli (Comunione e Liberazione) firmava due “lettere di intenti” per programmi sanitari con il Chaim Sheba Medical Center di Ramat Gan (Tel Aviv) e il Rambam Health Care Campus di Haifa, il primo, già ospedale militare, il secondo affiliato al Technion – Israel Institute of Technology, uno dei maggiori istituti di ricerca nel campo delle nuove tecnologie e dei sistemi d’arma.
“Le lettere di intenti preludono a un articolato e dettagliato accordo di cooperazione finalizzato a promuovere, nel triennio 2013-2016, la realizzazione presso il Policlinico Gemelli di un ospedale silente, in collaborazione con il Rambam Health Care, dotato di 100 posti letto potenziali da attivare in caso di maxi-emergenze sanitarie, quali calamità naturali, disastri o grandi incidenti in ambito civile che determinano numerose vittime politraumatizzate, nonché per la gestione di scenari cosiddetti CBRNE, ovvero in cui vi sia una emergenza provocata da sostanze chimiche, biologiche, radioattive, nucleari ed esplosive”, riferiva il portavoce della Cattolica. “L’iniziativa prevista con lo Chaim Sheba Medical Center riguarda il campo della simulazione medica, con previsione di attività formative e di ricerca dedicate alla gestione degli interventi di prima necessità; lo scambio e programmi per sviluppare progetti formativi E-Learning; una joint-venture per una stazione sperimentale in cui realizzare tecnologie speciali come manichini e parti anatomiche”. La sanità privata e paramilitarizzata…
Antonio Mazzeo
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