Amedeo Ricucci
22 giugno 2020
Nessuno lo dice – e tanti sono quelli che si illudono – ma la strada per una proficua cooperazione giudiziaria con l’Egitto, che consenta cioè di arrivare alla verità e di avere giustizia per Giulio Regeni, è tutta in salita e per vari motivi. Il primo è che il presidente Al Sisi non può permettersi di lasciar processare all’estero 5 dei suoi ufficiali del Dipartimento della Sicurezza Nazionale, per il semplice fatto che così metterebbe a repentaglio da un lato la base stessa del suo potere – che si fonda sull’arbitrio e sull’impunità garantita ai suoi sgherri – e dall’altra l’equilibro sempre più delicato fra i diversi servizi di intelligence che puntellano il suo regime. Sbandierare perciò una presunta “disponibilità” da parte del presidente egiziano – come hanno fatto già in passato e continuano a fare le nostre autorità – significa solo ignorare o sottovalutare la realtà egiziana e le dinamiche interne all’attuale regime.
La verità è che Al Sisi mente sapendo di mentire. E così come ha fatto finora, continuerà a tergiversare, cavillando sulle richieste dei giudici italiani e contando sul fattore tempo per uscire indenne dal caso Regeni, consegnandolo all’oblio. Non bisogna dimenticare a questo proposito che i giudici di Roma hanno a disposizione solo sei mesi per chiudere la loro inchiesta. E se l’Egitto non acconsentirà nel frattempo alla consegna del domicilio legale dei suoi 5 ufficiali iscritti nel registro degli indagati – è questo il primo passo chiesto alle autorità del Cairo – non sarà tecnicamente possibile processarli. Con l’Egitto, peraltro, l’Italia non ha nessun tipo di accordo, a livello di cooperazione giudiziaria. E se le autorità del Cairo si sono permesse finora di ignorare platealmente le richieste dei giudici italiani, cosa dovrebbe convincerle adesso, che la partita è ormai giunta alla fine? Il regalo di 2 fregate FREMM già destinate alla nostra Marina Militare? La promessa di uno shopping a venire, ancora più sostanzioso? Francamente, pensare che l’accesso ai gioielli della Fincantieri sia un incentivo sufficiente è un po’ da ingenui.
Ci sono d’altronde dei precedenti. E non sono affatto incoraggianti. Nel settembre del 2013 un cittadino francese che insegnava in Egitto, Eric Lang, vene arrestato dalla polizia e, dopo una settimana di galera, venne ritrovato ucciso nella sua cella. Del delitto vennero accusati i suoi compagni di prigionia, sei egiziani, che vennero condannati in fretta e furia, anche se in realtà si appurò che la morte di Eric era dovuta all’uso di una sbarra di ferro, di elettrodi e di cavi elettrici, strumenti di tortura di cui difficilmente chi è recluso può disporre.
Secondo i loro avvocati erano stati invece i poliziotti a torturare e pestare a morte Eric. E non gli avrebbero prestato assistenza, lasciandolo invece agonizzare. A niente valsero però le proteste e gli appelli della famiglia Lang, che ottenne sì una nuova inchiesta, in Francia, che si arenò guarda caso di fronte al silenzio ostinato del Cairo sulle richieste di collaborazione giudiziaria della giustizia francese. Anche in quel caso vennero avanzate delle rogatorie internazionali, ma non ebbero alcun seguito e rimasero anzi lettera morta.
A onore del vero va aggiunto che i governi che si sono succeduti in Francia – a differenza di quelli italiani con il caso Regeni – non hanno mai preso a cuore gli appelli della famiglia Lang e hanno sacrificato la morte di Eric sull’altare della realpolitik, continuando a fare affari con Al Sisi, senza farsi tanti problemi. Resta però il fatto che la strada della collaborazione giudiziaria con i Paesi extra europei è irta di ostacoli, sia formali che procedurali, sui quali è facile inciampare e che garantiscono delle comode scappatoie ai regimi che non sono democratici – lo è forse l’Egitto di oggi? – e che vogliano proteggere i loro segreti.
Non sarebbe inoltre la prima volta che una nostra rogatoria internazionale cade nel vuoto. E’ successo ad esempio nel caso di Raffaele Ciriello, il fotoreporter ucciso a Ramallah nel marzo del 2012 da cinque proiettili 7,62 Nato sparati da un carro armato israeliano.
L’inchiesta aperta all’epoca dai giudici Turone e Baraldi, del Tribunale di Milano, venne archiviata a scadenza dei termini per via del rifiuto da parte del governo israeliano di identificare – perché i nostri giudici potessero interrogarli – i soldati che stavano all’interno del carro armato da cui erano partiti i colpi.
Più cocente ancora, se possibile, fu lo smacco subito con la strage del Cermis del 1998, quando un aereo militare americano – che volava a a una quota più bassa di quanto fosse concesso e in violazione ai regolamenti – tranciò di netto il cavo di una funivia in funzione, facendone precipitare la cabina e provocando la morte dei venti occupanti. I pm chiesero di processare in Italia i quattro marines dell’equipaggio, ma il giudice ritenne che, in forza della Convenzione di Londra del 1951 riguardante lo status dei militari della Nato, la giurisdizione sul caso era da riconoscere alla giustizia militare americana.
Insomma, la volontà da sola non basta. E in ogni caso, più che le dichiarazioni roboanti serve una strategia accorta e ben congegnata, vale a dire un mix di pressioni e di moral suasion, con cui aggirare da un lato gli ostacoli formali che si frappongono a un processo in Italia e ribadire dall’altro che non si è disposti per nessun motivo a dimenticare quello che è stato fatto a Giulio. Finora solo la famiglia Regeni ha fatto la sua parte, senza mai abbassare la guardia ed evitando così che calasse il silenzio su questa vicenda, come qualcuno sperava. L’opinione pubblica italiana l’ha sostenuta e fa oggi muro dietro di lei. Sta adesso alla politica fare la sua parte.
Amedeo Ricucci
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