L’Europa fa marcia indietro: basta finanziamenti al regime di Asmara

0
847
Eritrea: Forced labour

Speciale per Africa ExPress
Cornelia I. Toelgyes
21 giugno 2020

Lo scorso maggio Human Rights for Eritreans (FHRE), con sede in Olanda, aveva citato in giudizio l’Unione Europea per un finanziamento di 80 milioni di euro dal Fondo Fiduciario per l’Africa per la realizzazione e il rifacimento della rete stradale in Eritrea. Questo perchè la società locale impegnata nella realizzazione delle infrastrutture, di proprietà del regime di Asmara, impiega come mano d’opera personale costretto al servizio militare/civile.

Tale denuncia ha creato parecchio imbarazzo a Bruxelles. Messa sotto pressione da Organizzazioni non governative, da alcuni deputati e da associazioni della diaspora eritrea, la Direzione generale della Cooperazione internazionale e dello sviluppo della Commissione europea (DG DVECO), ha fatto il punto della situazione sugli aiuti elargiti alla dittatura di Isaias Afewerki.

Eritrea: Forced labour

Il 15 giugno scorso, Hans Stausboll, responsabile di DVECO per l’Africa dell’est, durante un’audizione alla Commissione Europea ha evidenziato che un ulteriore finanziamento di 50 milioni di euro, richiesti da Asmara per il completamento della rete stradale, è stato rifiutato e nei prossimi anni non saranno più messi in budget altre somme di denaro per la ex colonia italiana.

Non è chiaro per quale motivo, invece, gli 80 milioni contestati da FHRE non siano stati bloccati, la convenzione in proposito è stata firmata solamente il 10 giugno scorso.

Stausboll ha inoltre precisato che Asmara potrà comunque godere di altri finanziamenti di complessivi 19,7 milioni di euro, per diversi progetti già approvati in precedenza. Tra questi 5 milioni per l’apertura di un dialogo con la diaspora, per favorire il ritorno momentaneo – per motivi lavorativi – o permanente di migranti eritrei.

Eppure l’UE è al corrente del sistema giudiziario del regime, di ciò che potrebbe accadere ai giovani una volta messo piede nel Paese. Al loro arrivo sono costretti a firmare una “Letter of regret” nella quale confessano di non aver terminato il servizio militare obbligatorio in patria, di aver commesso un grave reato, di accettare punizioni a tale riguardo. Il governo di Isaias non perdona i disertori; il servizio militare obbligatorio a tempo indeterminato resta la principale causa del perchè la gente fugge, cercando di raggiungere l’Europa.

Bruxelles, Commissione europea

Secondo quanto è emerso recentemente da un’inchiesta di Euronews, non sempre i “ritorni volontari” possono essere considerati tali. Poco più di un anno fa 21 migranti, dopo lunghi mesi in situazioni detentive estreme in un lager libico a Zwara, involontariamente avevano apposto i loro nomi sulla lista rimpatri che gli era stata proposta dal personale dell’Organizzazione Internazionale per le Migrazioni (OIM). Al momento della partenza all’aeroporto Mitiga di Tripoli avrebbero voluto rinunciare al rimpatrio, non è stato possibile; solo 5 di loro sono riusciti a fuggire poco prima dell’imbarco. Negli ultimi due anni OIM, in collaborazione con il supporto dell’UE ha contribuito a far tornare in patria 61 eritrei detenuti in Libia.

Eppure, per stessa ammissione dell’Organizzazione, la loro presenza sul territorio del Paese sul Mar Rosso è assai “limitata” e nemmeno l’UNHCR vi può accedere, dunque nessuno è in grado di monitorare il destino dei rimpatriati in loco.

Anche il nuovo rapporto di Daniela Kravetz, avvocato cileno, inviato speciale delle Nazioni Unite per l’Eritrea, pubblicato recentemente e che sarà sottoposto al prossimo Consiglio per i Diritti umani – organo sussidiario dell’Assemblea generale del Palazzo di Vetro con la responsabilità di promuovere il rispetto universale per la protezione dei i diritti umani e le libertà fondamentali per tutti, senza distinzione alcuna – che si riunirà nei prossimi giorni, parla chiaro: “Non si evidenziano concreti segnali di miglioramento, l’attuale situazione non ha subito cambiamenti sostanziali rispetto agli anni precedenti, malgrado sia stata riscontrata una timida apertura di dialogo con gli Stati confinanti”.

Insomma, il trattato di pace siglato nel 2018 con l’Etiopia, l’ex acerrimo nemico, non ha ancora portato i desiderati benefici alla popolazione eritrea.

Cornelia I. Toelgyes
corneliacit@hotmail.it
@cotoelgyes

Eritrea: il regime confisca le cliniche della Chiesa cattolica, buttati fuori i malati

 

Eritrea: dopo il massacro di martedì non si placa il dissenso contro il governo

 

 

LEAVE A REPLY

Please enter your comment!
Please enter your name here