Elisabetta Crisponi
31 maggio 2020
Restiamo ancora una volta in Africa, e anche in questa puntata in compagnia di Massimo Alberizzi. Dopo aver parlato di Ebola, affronteremo insieme un fatto di cronaca apparso tra le pagine di tutti i giornali italiani: la liberazione di Silvia Romano. Vi ricordiamo con chi stiamo parlando: giornalista, ha viaggiato per tutta l’Africa coprendo guerre, carestie e calamità naturali. Attualmente è direttore del quotidiano online Africa ExPress (www.africa-express.info), proprio per questo ci siamo rivolti a lui. Africa ExPress è stata la testata che più di qualunque altra si è occupata del caso Romano, per tutta la durata del rapimento, ponendosi come obiettivo non solo informare, ma indagare.
Da cosa nasce la decisione di affrontare un’inchiesta così difficile sul campo? «Lo abbiamo deciso per dovere. Nessuno si muoveva, c’erano molti lati oscuri nella vicenda. Noi non siamo una testata ricca, non avremmo potuto affrontare l’inchiesta senza il contributo dei lettori, che ringrazio, perché hanno finanziato più della metà delle spese. In Kenya abbiamo visitato Chakama, il villaggio in cui Silvia operava. Abbiamo visto il suo alloggio e le persone che frequentava».
C’è stata una polemica verso Africa Milele, la Onlus per cui Silvia operava in Africa. Responsabili di altre Organizzazioni hanno sottolineato come i giovani facciano esperienze di cooperazione internazionale con associazioni meno qualificate. Ritieni ci siano responsabilità in questo caso? «Secondo me non c’è nessuna responsabilità di Africa Milele. Hanno rapito persone di qualsiasi organizzazione, anche di quelle più famose e qualificate al mondo».
Continua il racconto sulla vostra inchiesta. «Siamo arrivati fino alle sponde del fiume che Silvia ha attraversato, portata in spalla dai rapitori, visitato gli orfanotrofi in cui lavorava, seguito le sue tracce a Mombasa, fino all’hotel in cui aveva precedentemente soggiornato. Lì abbiamo scoperto che nessun altro inquirente o giornalista vi si era recato per chiedere informazioni, o capire se la ragazza fosse sola o in compagnia. Abbiamo seguito le udienze del processo, cui nessun giornalista italiano assisteva. Avevamo quasi individuato la zona in cui Silvia era prigioniera. Una volta i grandi giornali finanziavano le inchieste. Io stesso, quando ero inviato al Corriere della Sera, restai due mesi in hotel a spese del giornale, per indagare sul sequestro di alcuni italiani in Nigeria. Funzionò: dopo le mie trattative, vennero liberati».
Silvia è stata rapita in Kenya. Perché è stata portata in Somalia? «In principio, Silvia è stata rapita da criminali comuni kenioti. Volevano i soldi del riscatto, inizialmente una cifra molto più bassa di quella che è stata pagata, anche se preciso che la somma data è comunque meno di 4 milioni di euro, come invece si è detto. Per due volte l’Italia non ha pagato il riscatto, questo è agli atti del processo. A quel punto, la ragazza è stata ceduta a criminali comuni in Somalia, e alla fine è arrivata nelle mani di Al-Shabaab. Da quelle parti, la notizia di una bianca prigioniera è importante, non solo perché può fruttare i soldi, ma perché diventa strumento importante nelle trattative internazionali. Silvia si è trovata in un gioco più grande di lei».
Quale gioco? «Gli Emirati Arabi Uniti, in cambio di un aiuto, hanno chiesto all’Italia di cambiare le alleanze in Libia. Il nostro Paese ha rifiutato, così si è rivolto alla Turchia, che ha chiesto all’Italia di allentare la linea dura assunta ultimamente contro Erdoğan, restando sua alleata in Libia. La rete di intelligence turca è intervenuta, insieme al Qatar, che compra armi dalla Turchia e dall’Italia, per trattative che raggiungono anche 5 miliardi di euro. L’intelligence italiana ha fatto ben poco: la nostra rete, un tempo eccellente nel Corno d’Africa, è stata pian piano completamente smantellata».
Durante le tue indagini, la famiglia della ragazza ha tenuto sempre un bavaglio. Le indicazioni governative erano quelle del silenzio, per poter tutelare la sicurezza della ragazza. Ma una volta giunta qui, la protezione è crollata ed è stata data in pasto all’opinione pubblica. «Esattamente. La famiglia seguiva la linea della Farnesina, che preferiva non parlare della vicenda. Ma una volta liberata la ragazza, la politica ha preferito esibirla. Tutto il pubblico si è concentrato sul suo vestito, la mia attenzione è caduta sulle divise dell’Intelligence. È stato uno spettacolo da film 007, non un comportamento da Paese civile».
E la faccenda della conversione all’Islam? «Penso che sia stata una scelta giocata dalla paura. Ma nessuno deve entrare nella speculazione. Quelle sono organizzazioni molto fanatiche. E non esistono solo nel mondo mussulmano, ma in tutte le religioni. I somali sono mussulmani moderati, soprattutto nelle zone remote. Ricordo che, per farsi qualche bevuta, mi prendevano la birra dalla macchina. C’è da dire che questa giovane è rimasta prigioniera di uomini sempre armati. Ha dichiarato di non essere stata trattata male, le credo, ma comunque a livello psicologico ha affrontato una situazione difficile. La mia ipotesi, conoscendo il Paese, è che i somali abbiano preso i soldi non per comprare armi propriamente dette, ma per un mercato che riguarda un controllo più “raffinato”. Probabilmente finiranno in grattacieli costruiti a Londra, Milano, New York, e Dubai. Il Qatar mira al controllo delle miniere di uranio in Somalia, per poi venderlo all’Iran. Tutti i soldi della pirateria somala sono in mano a ricchi uomini d’affari».
Anche tu sei stato rapito in Somalia. «Sì, infatti non mi stupisco di certi meccanismi. Se avessi chiesto di portarmi un Corano, sarebbero andati a comprarmelo in libreria. Tutta la Somalia è piena di Corani in italiano e in inglese. Se avessi chiesto di imparare l’arabo, sarei stato subito accontentato. Anche io, quando sono entrato in una moschea di Al Qaeda ho dovuto prendere un nome islamico: Al Barassi, “portatore di notizie”, poi mi dissero. Nomen omen».
Due parole su come i Media italiani hanno gestito la vicenda. «Un comportamento scandaloso. Lapidare per slogan, senza indagare, fermandosi alle fonti ufficiali e non porre nessuna domanda che vada oltre, non è giornalismo; ma strumento di lotta politica».
Non è stato di sicuro opportuno, per esempio, mostrare l’indirizzo dell’abitazione della ragazza, né trasformare in notizia ciò che sarebbe dovuto comparire a semplice scopo informativo. Oltre al COVID-19, di questi tempi, si diffondono altri tipi di virus ad alto contagio: spesso hanno la forma di titoli altisonanti che rimbalzano nella gogna mediatica, nuova forma moderna della forca col boia. Raccontare la verità, essere prudenti, arricchire il lettore e non avvelenarlo: questo potrebbe essere un vaccino efficace. Gulliver vi saluta, accompagnandosi alle parole del suo grande maestro di etica giornalistica: Joseph Pulitzer.
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