Amedeo Ricucci
Roma, 27 maggio 2020
Magari sono un nostalgico del giornalismo d’altri tempi, ma ho trovato francamente un po’ umiliante dover constatare, ieri, che una buona fetta della stampa italiana aveva sguinzagliato i suoi intrepidi reporter sulle tracce di Silvia Romano e di sua madre che andavano dall’estetista, dopo i canonici 14 giorni di quarantena.
Ed è stato altrettanto sconcertante, almeno per me, vedere che dal giorno del rientro di Silvia a casa, il 10 maggio, i giornalisti di casa nostra non abbiano trovato niente di meglio da fare che bivaccare da mattina a sera sotto casa Romano, monitorare i suoi messaggi privati e frugare a mani basse nella sua vita, per alimentare con i pretesti più assurdi questo gossip allucinante sulla sua conversione.
Eppure ce n’erano di inchieste degne di questo nome, legate al caso Silvia Romano, su cui poter lavorare. Sì, perché è stato evidente a tutti che in molte fasi di questo sequestro – e nella narrazione ufficiale che ne è stata fatta dalle nostre autorità – c’erano diverse cose che non tornavano. A partire dal giubbotto anti-proiettile con impressa la mezzaluna turca e un motto in turco che abbiamo tutti visti addosso a Silvia, in una delle foto scattate a Mogadiscio e che sono state subito diffuse.
Come mai? Vuol dire che il rilascio di Silvia è stato gestito in piena autonomia dai servizi di intelligence turca e che sono stati loro a portare Silvia all’Ambasciata italiana di Mogadiscio? Se fosse vero, beh, andrebbe quanto meno ridimensionato il ruolo attribuito all’AISE, la nostra intelligence esterna, che invece era in prima fila a Ciampino a prendersi i ringraziamenti del nostro Presidente del Consiglio, come se l’AISE fosse stata in prima linea a Mogadiscio e avesse liberato lei Silvia, coadiuvata da altri partner. E in ogni caso ci sarebbe un bel po’ di trippa per gatti: provare cioè a capire chi c’era veramente nelle fasi cruciali del rilascio, chi ha gestito i contatti coi rapitori e, soprattutto, chi aveva con sé le valigie con i soldi.
E invece niente. Molte testate hanno addirittura provato a inventarsi strane storie su quel giubbotto anti-proiettile dalla provenienza evidente – “sembra turco ma non lo è”, questo il succo della bugia diffusa – e nessuno ha dedicato la dovuta attenzione allo strano balletto che c’è stato sui soldi del riscatto: a Ciampino c’è stata fra le nostre Autorità una sorta di ammissione implicita che un riscatto era stato pagato – e non era mai successo, finora – poi si è provato a fare marcia indietro.
Subito dopo è scoppiata la grana dell’intervista al portavoce degli Shebab somali, Ali Dehere, il quale dichiarava a Repubblica che sì, il riscatto era stato pagato, e che i soldi sarebbe stati usati per comprare nuove armi. Le sue parole sono sembrate a molti esperti inusuali e poco convincenti, al punto da suscitare non poche dietrologie, suffragate da una smentita ufficiale arrivata dagli stessi Shebab. Un bel vespaio, no?
Ma quasi tutte le testate italiane hanno preferito lasciare i loro giornalisti sotto casa di Silvia Romano per darci tutte le informazioni sul colore del suo hijab e solo una, Il Foglio, ha deciso di vederci chiaro, mettendo al lavoro il suo migliore esperto d terrorismo islamico. Daniele Raineri. Al quale gli Shabab hanno confermato ufficialmente che nessuna intervista era mai stata concessa a un giornale italiano dal loro portavoce, Ali Dehere. A complicare le cose c’è stato però un possibile, probabile errore di omonimia, che forse ha ingannato il giornalista di Repubblica e su cui da più parti si è speculato.
Mi sono dilungato sulla questione del riscatto perché attorno ad essa ruotano diverse questioni delicate, su cui le testate italiane mainstream tacciono e su cui invece Africa ExPress sta facendo un ottimo lavoro, nel silenzio più assordante. E’ stata Africa ExPress a chiarire infatti, meglio di tutti, gli interessi della Turchia in Somalia ed il lavoro che da anni sta facendo da quelle parti, in tandem con il Qatar.
Ed è stata Africa ExPress a dare la notizia che è stato proprio il Qatar a pagare probabilmente il riscatto per Silvia Romano, con una complicata triangolazione in cui sono entrati dollari, armi, garanzie politiche e soprattutto uranio, sì uranio, minerale di cui la Somalia è ricca. La serie degli approfondimenti legati a questo dossier continua, su Africa ExPress, ed è una boccata di ossigeno per chi come me crede, con Horacio Verbinsky, che “giornalismo è diffondere quello che qualcuno non vuole che si sappia. Tutto il resto è propaganda”. Attendo con ansia
Amedeo Ricucci
amedeo.ricucci@rai.it
*Amedeo Ricucci è inviato della RAI
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