20 maggio 2020
Un’associazione di attivisti eritrei in esilio ha citato in giudizio l’Unione Europea per aver elargito un finanziamento di 80 milioni di euro dal Fondo Fiduciario per l’Africa per la realizzazione e il rifacimento della rete stradale in Eritrea.
La società eritrea impegnata nella realizzazione delle infrastrutture è di proprietà del regime di Asmara, che, come è ben noto, impiega come mano d’opera personale costretto al servizio militare/civile.
Gli avvocati di Human Rights for Eritreans (FHRE) con sede in Olanda tempo fa avevano già scritto una lettera a Bruxelles, specificando, appunto che la dittatura costringe i propri cittadini ai lavori forzati e con questo finanziamento l’UE avalla tale pratica.
Il servizio militare obbligatorio a tempo indeterminato resta la principale causa perchè la gente fugge, cercando di raggiungere l’Europa. Infatti chi non è impegnato nelle caserme, deve svolgere lavori forzati per uno stipendio misero nelle miniere o presso imprese di costruzioni, ditte gestite da privati.
Il silenzio della Commissione ha indotto la Fondazione a agire per vie legali. Una prima tranche di 20 milioni del finanziamento è stata stanziata lo scorso anno e nel mese di febbraio l’ambasciatore degli Stati membri dell’UE e quello della Gran Bretagna, insieme alle autorità eritree hanno ispezionato il primo tratto della strada Nefasit e Dekamhare, che una volta terminata dovrebbe far parte della più grande arteria stradale che connette Massawa con il confine etiopico.
Il progetto è stato implementato grazie a un accordo con UNOPS (Ufficio delle Nazioni Unite per i Servizi e i Progetti). E secondo l’UE le nuove infrastrutture dovrebbero contribuire allo sviluppo economico e commerciale, creare nuovi posti di lavoro nel Paese.
Gli avvocati incaricati dall’associazione, Emil Jurjens e Tamilla Abdul-Alyeva, hanno depositato glia atti al Tribunale di Amsterdam il 13 maggio scorso. Nell’ istanza hanno altresì chiesto che il finanziamento europeo venga dichiarato illegittimo e contestualmente l’ordine di immediata sospensione dei lavori.
I rappresentanti legali hanno fatto leva sul diritto internazionale che non solo non ammette, ma sanziona i lavori forzati. All’uopo si ricorda che con l’entrata in vigore del Trattato di Lisbona del 2009 viene stabilito tra l’altro l’obbligo di promuovere e consolidare i diritti umani nell’azione esterna dell’UE.
Nella nostra ex colonia non esiste un sistema giudiziario indipendente, tanto meno un parlamento eletto democraticamente oppure un’assemblea legislativa, figuriamoci partiti all’opposizione o giornali liberi; è dunque ovvio che non c’è spazio per i diritti fondamentali dei cittadini, che continuano a scappare da questa prigione a cielo aperto. Dunque non sarà il lavoro a fermare i giovani nella più atroce delle dittature africane, la miglior gioventù continuerà a scappare, non ci sarà verso di fermare l’esodo e il traffico di esseri umani finchè non sarà ristabilita la democrazia. Uno Stato, che nel 2018 ha raccolto consensi nel mondo intero per aver firmato accordi di pace con l’Etiopia, fino a poco fa il suo peggiore nemico, ma è semplicemente un Paese il cui governo dimostra giornalmente di non essere ancora pronto per riconciliarsi con il proprio popolo.
Africa ExPress
@africexp
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