Speciale per Africa ExPress
Alice Pistolesi
19 maggio 2020
Una terra martoriata in cui le mine antiuomo, armi micidiali, ma anche cambiamenti climatici e mancata autodeterminazione del popolo saharawi si intersecano in un connubio letale per chi la abita.
La porzione di terra in questione è quella tra Algeria, Mauritania e Sahara Occidentale, dove la sabbia del deserto è stata ed è simbolo di morte.
L’area che circonda il muro di 2.700 chilometri che divide i campi profughi saharawi in terra algerina dal Sahara Occidentale è una delle più minate del mondo.
Le mine rendono il territorio inospitale potenzialmente per sempre: con le piogge gli ordigni tendono infatti a spostarsi sotto la sabbia, rendendo l’operazione di bonifica estremamente complicata.
Si stima che intorno al muro siano presenti da uno a due milioni di mine. Lo sbarramento, costruito dal Marocco a partire dal 1980, divide gli abitanti del Sahara Occidentale, dai campi profughi abitati dai saharawi che con l’inizio dell’occupazione marocchina nel 1974 fuggirono nel deserto. Lungo la divisione, ogni quattro o cinque chilometri, si trova una compagnia militare. In totale sono circa 100mila i soldati marocchini stanziati a presidio della linea difensiva. Ogni 15 chilometri è poi installato un radar che fornisce dati alle vicine batterie di artiglieria.
La zona Est del muro, anche detto Berm, presentava, alla fine del 2016, 252 km quadrati di contaminazione da mine, mentre la contaminazione a Ovest del Berm non è nota. Secondo i dati forniti dal Landmine and Cluster Munition Monitor, un’iniziativa che fornisce materiali e ricerche nell’ambito della Campagna internazionale per la messa al bando delle mine antiuomo e la Cluster Munition Coalition, quantificare il territorio compromesso è in questa area particolarmente difficile. La zona a Est del Berm è contaminata anche da munizioni a grappolo ovvero l’eredità della guerra tra l’esercito reale marocchino e il Fronte popolare per la liberazione della Saguia el Hamra e il Rio de Oro (Fronte del Polisario).
Per bonificare l’area, nel 2013 l’autorità nazionale saharawi ha fondato, con il sostegno delle Nazioni Unite, l’ufficio Saharawi di coordinamento dell’azione contro le mine (Smaco).
In sette anni di attività l’organizzazione sostiene di aver liberato o sminato 148.8 milioni di metri quadrati di area pericolosa, bonificato 37 dei 61 campi di mine conosciuti e 459 aree contaminate da bombe, neutralizzato 7870 mine terrestri, 8830 resti di esplosivi di guerra, 24.494 munizioni, di aver formato 73.269 persone con “l’educazione del rischio” e aver assistito 252 persone (28 sopravvissuti e 224 i familiari). Smaco rileva poi che le vittime sono state 1024.
Il territorio minato intimidisce. La gente sa che percorrerlo è rischioso e capita che la fiducia vacilli anche nelle aree sminate. “Hanno paura anche nelle aree bonificate - dice Gaisi Nah, ufficiale operativo di Smac -. Per questo dobbiamo trasmettere fiducia e voglia di vivere il territorio. Crediamo che un modo per farlo sia piantare alberi. Gli alberi invogliano la gente a uscire, a fare pic nic, a passare giornate fuori dalle proprie tende. Sono un riparo di ombra per i cammellieri e per la popolazione nomade. L’albero è il nostro contrappeso alla paura”.
“Un arbol por cada mina”, un progetto nato con l’obiettivo di rendere il territorio più ospitale e verde, è portato avanti dal 2017 dalla Onlus Reseda, insieme a Smaco. Per ogni mina, un albero, per sostituire così la vita con la morte. L’obiettivo è quello di piantare 7milioni di alberi e creare un ‘muro’ speculare a quello marocchino: un muro verde. Gli alberi piantati sono autoctoni perché le aree prima della guerra, dell’abbandono e dagli effetti del cambiamento climatico, non erano completamente desertiche.
Una delle piante utilizzate nel progetto è l’Acacia Raddiana, una pianta simbolo per il popolo saharawi che può sopravvivere senza acqua per tre anni. Da questa si estrae l’elk, una resina che viene utilizzata come medicinale mentre con il legno si ricavano oggetti tradizionali e le foglie diventano foraggio per gli animali.
Oltre a piantare un albero per ogni mina il progetto si occupa di rendere più verdi anche i campi profughi saharawi in terra algerina, organizzati in cinque wilaya che prendono il nome da cinque città del Sahara Occidentale.
“Abbiamo donato alberi da frutto e piante che fungono da integratori alimentari – racconta Roberto Salustri, presidente di Reseda e agronomo – come melograni, olivi e moringa alle famiglie che hanno avuto vittime da mine. Gli alberi in aree desertiche hanno funzioni specifiche che aiutano l’agricoltura: proteggono le coltivazioni dal sole, forniscono biomassa e foraggio”.
Nei campi profughi verrà piantato un albero anche per ciascuno dei 500 desaparecidos saharawi, persone di cui si è perso le tracce dall’occupazione marocchina del Sahara Occidentale, fino ad oggi.
Proprio la sede dell’associazione delle famiglie dei prigionieri e desaparecidos saharawi (Afapedresa), ospita infatti il primo vivaio realizzato nelle wilaya dei campi profughi.
Alice Pistolesi