Cornelia I. Toelgyes
14 maggio 2020
La liberazione della volontaria italiana Silvia Romano si deve grazie e soprattutto all’intervento dei servizi di intelligence turchi che negli ultimi anni hanno costruito una rete capillare di agenti e informatori che si sono sostituiti a quella che l’Italia aveva costruito a partire dagli anni 60, quelli delle indipendenze africane.
Grazie a ingenti investimenti e alla diffusione capillare della sua compagnia di bandiera, Turkish Airlines, ma anche dei suoi operatori commerciali, la Turchia ha battuto la concorrenza occidentale in Somalia timida e assonnata. Probabilmente in silenzio e senza clamore la penetrazione Turca è cominciata nel 1993 quando capo della missione internazionale UNISOM II (United Nations Operation in Somalia II) divenne l’ingegnere turco Çevik Bir.
Più recentemente, nel 2011 Recep Tayyip Erdogan, allora primo ministro della Turchia, si reca in Somalia, in ginocchio da fame e carestia. Dopo 20 anni è il primo capo di governo non africano a vistare Mogadiscio, accompagnato da moglie e figlia e una folta delegazione di ministri e membri di gabinetto. Pochi giorni prima di questa visita, Ankara e altre nazioni musulmane avevano stanziato 350milioni di dollari per combattere fame e siccità nel Paese.
Erdogan vuole conquistare il cuore dei somali, capire le reali necessità della ex colonia italiana. E l’allora ministro degli Esteri, Ahmet Davutoğlu, definito da molti osservatori dell’epoca come “il cervello che sta dietro al risveglio globale della Turchia”, aveva annunciato di voler aprire l’ambasciata nella capitale somala per sfatare il mito di una città off limits.
Durante questo soggiorno è stato annunciato che Ankara avrebbe ricostruito la strada che porta da Mogadiscio all’aeroporto internazionale, ripristinato un ospedale, costruito scuole e trivellato pozzi d’acqua.
Nel 2014 viene affidato al gruppo turco Albayrak la ricostruzione e la manutenzione del porto di Mogadiscio con un contratto della durata di 20 anni.
Un anno dopo Ankara agisce in qualità di mediatore tra la Somalia e il Somaliland, ex protettorato britannico che nel 1991 ha proclamato la propria indipendenza.
Nel 2016 Erdogan apre la nuova ambasciata sul lungomare di Mogadiscio, la più grande e più moderna sede diplomatica turca in tutta l’Africa. E, in tale occasione il presidente afferma: “I nostri progetti nel Paese procedono”.
Dopo due anni di lavori, nell’autunno del 2017 viene inaugurata a Mogadiscio la più grande base militare turca all’estero, costruita su 4 chilometri quadrati, è ubicata vicino al mare e non lontana dall’aeroporto per un costo complessivo che ha superato 50 milioni di dollari. Un insediamento importante nel Paese; Ankara si era focalizzata finora su aiuti umanitari e scambi economici. La costruzione di un’altra base militare in Africa era prevista in Sudan, accordo preso con Omar al Bashir nel 2018. Progetto ora in stand-by dopo la caduta dell’ex dittatore sudanese.
Per rafforzare i suoi legami con il Qatar, Erdogan ha fatto realizzare una nuova base militare vicino a quella turco-qatariota Tariq ibn Ziyad, già attiva dal 2015. La presenza dei turchi nel Golfo Persico e l’amicizia con il Qatar non è per nulla gradita dalle altre nazioni dell’area: Arabia Saudita, Emirati, Bahrein e dal loro alleato Abdel Fattah al-Sisi, presidente dell’Egitto.
Nel Cipro Nord, invece, è presente militarmente dal 1974.
L’infrastruttura di Mogadiscio è stata progettata per la formazione delle forze armate somale per poter contrastare i terroristi di al- Shebab e può accogliere oltre 1.000 soldati contemporaneamente; l’addestramento viene effettuato da personale militare turco.
Negli anni i turchi hanno speso oltre un miliardo di dollari in aiuti per la Somalia. Insomma, grazie ai contributi umanitari e all’intervento dei diplomatici, Ankara ha saputo imporsi militarmente e economicamente in Somalia. Tantoché all’inizio di quest’anno il presidente somalo Mohamed Abdullahi Mohamed Farmajo ha invitato Erdogan a cercare petrolio nei suoi mari, precisando: “Visto che lo fai in Libia, puoi farlo pure qui”. Infatti accordi in tal senso sono stati firmati a fine novembre a Istanbul tra Fayez al Serraj, presidente del Consiglio Presidenziale e Primo ministro del Governo di Accordo Nazionale della Libia, riconosciuto dall’ONU e la sua controparte turca.
I rapporti Italia-Turchia si sono nuovamente stabilizzati dopo una parentesi di tensione nel 2016 perchè il terzogenito di Erdogan, Bilal era stato indagato dalla Procura di Bologna per riciclaggio di denaro. All’epoca il giovane si trovava in Italia per motivi di studio. L’indagine era partita da un esposto presentato dal Muran Hakan Huzan, imprenditore e oppositore del partito islamico-conservatore di Erdogan, Akp (Partito della Giustizia e dello Sviluppo).
La vicenda aveva scatenato l’ira del presidente turco a un tal punto da attaccare la nostra magistratura con testuali parole: “L’Italia si occupi piuttosto della mafia”, precisando che il fatto avrebbe potuto mettere a rischio i rapporti con il nostro Paese. Ne è seguita una risposta secca dell’allora presidente del Consiglio dei ministri, Matteo Renzi, e una nota dell’Associazione nazionale magistrati. L’indagine è stata infine archiviata nel gennaio 2017 in quanto l’autore dell’esposto non poteva essere sentito dagli inquirenti, perchè residente in Francia con lo status di rifugiato politico.
Il nostro Paese è il quarto partner commerciale di Ankara; in Italia operano 50 aziende turche, mentre quelle italiane presenti in Turchia sono ben 1.400; i principali settori degli scambi economici sono quello automobilistico, difesa e infrastrutture.
La presenza di Ankara in Africa è imponente. Basti pensare che le sue rappresentanze diplomatiche sono presenti in 40 Paesi e la sua compagnia aerea, la Turkish Airlines, copre 58 destinazioni nel continente nero. E non per ultimo l’Agenzia di cooperazione e di sviluppo turca (Tika) è attiva in molti Stati africani anche con lo scopo di promuovere investimenti.
Cornelia I. Toelgyes
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