Monica A. Mistretta
Milano, 13 maggio 2020
È la fine di maggio del 2013. Al Cairo gli uomini di Hamas si muovono come a casa: il presidente egiziano è un loro stretto alleato. Mohammad Morsi è legato alla Fratellanza Musulmana e all’organizzazione islamica che governa Gaza. Ancora poco più di un mese e un colpo di stato porterà al potere Abdel Fattah Al Sisi, nemico acerrimo degli islamisti e di tutti loro.
Per il soggiorno nella capitale egiziana gli uomini di Hamas, alcuni dei quali con un regolare passaporto italiano in tasca, non hanno scelto una delle stamberghe delle periferie affollate, dove le strade non sono nemmeno asfaltate. Se ne stanno seduti ai tavoli all’aperto, in giacca e cravatta, a bordo della piscina di uno degli hotel più lussuosi de Il Cairo.
Ci sono anch’io con loro mentre facciamo insieme la colazione: siamo di ritorno da Gaza, dove sono stata una settimana nel tentativo di fare luce, con alcune interviste, sulla morte di un attivista italiano, Vittorio Arrigoni, avvenuta nella primavera del 2011 e ancora senza risposta.
La sera prima quegli uomini mi hanno chiesto di consegnare loro il file con tutte le fotografie che ho scattato nella settimana trascorsa nella Striscia di Gaza: ho dovuto dargli tutto perché so cosa vuol dire essere nelle loro mani. Adesso, prima di salire sulla macchina che mi porterà all’aeroporto per il rientro in Italia, mi chiedono ancora un’ultima cosa: di nascondere un pacchetto di soldi in contanti da qualche parte addosso a me o nei miei bagagli e portarlo in Italia per poi consegnarlo a uno di loro quando me lo chiederà. È così che hanno imparato a reclutare gli occidentali?
Quanti soldi contenesse quel comune sacchetto della spesa non lo so, ma le banconote in euro erano davvero tante. In quei momenti, quando ti rendi conto che sei davvero in pericolo, non è facile fare la scelta giusta. Non sai nemmeno se si tratti di una scelta. È la paura, secca e primordiale, ad avermi salvato quando ho risposto di no. Ed è in frangenti come questi che impari la cosa più importante di tutte: non giudicare nessuno che sia costretto a prendere una decisione mentre si trova nelle loro mani.
Non sappiamo come Silvia Romano sia finita ostaggio degli jihadisti che l’hanno convinta a convertirsi all’Islam. Il passo per diventare uno strumento a loro uso e consumo può essere brevissimo. Sappiamo che la maggioranza degli occidentali che diventano ostaggi, quasi sempre inconsapevoli, viene utilizzata da stati e organizzazioni criminali come garanzia nei traffici di armi.
Il meccanismo è semplice e spietato: uno stato vende a un altro armi e lo fa non direttamente, ma utilizzando come intermediari organizzazioni criminali di variegata estrazione: è così che fanno affari gli jihadisti, non con i riscatti. Nel lasso di tempo in cui avviene il pagamento e le armi devono ancora essere consegnate serve un ostaggio, possibilmente occidentale, come garanzia. Un pegno, insomma, finché la merce non arriverà nelle mani del destinatario. Le vendite che contano davvero non sono quelle di fucili e carri armati, ma di tecnologie sofisticate che vanno anche collaudate con tecnici ed esperti: anche per questo i tempi dei rapimenti sono lunghi.
Silvia è rimasta nelle mani dei suoi rapitori per 18 mesi. Nelle polemiche di queste ore, tra ipotesi di gravidanza, veli e Corani, nessuno mette a fuoco il fattore chiave: cosa c’era in gioco in questi due anni di permanenza di Silvia in Kenya o in Somalia?
Monica A. Mistretta
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